Tinto Brass: "La mia svolta soft: mi sposo e faccio un film... pacifista"

Il regista, di cui oggi a Roma si proietta "L’urlo" che diresse nel Sessantotto (segue dibattito), anticipa i suoi progetti personali e professionali

Tinto Brass: "La mia svolta soft: 
mi sposo e faccio un film... pacifista"

da Roma

Rari sono i registi che, come Tinto Brass, vengono subito associati a un concetto. L’elogio del culo è il suo ultimo libro (Pironti editore), le Nemesiache (femministe napoletane dette e ‘uommene, le uome) gli rovesciarono un cesto di ghiande in testa al grido di «porco! porco!», intanto che la moglie Tinta lo esortava a mostrare loro il proprio gioiello per signora («come la croce per le indemoniate», chiosò lei); ha rilanciato la Sandrelli sul viale del tramonto (La chiave, 1983), illudendo Caprioglio e Dellera, Grandi e Galiena di poter recitare oltre il lato B; ha indirettamente convinto Claudia Koll a farsi suora, dopo averle mostrato di cos’era capace in Così fan tutte (1992). Dici Brass e pensi sporco, cioè cinema erotico dove la calligrafia porno serve a inquadrare meglio i sessi degli attori. Però tre giorni fa, a Padova, duecento studenti non la finivano più di fargli domande, dopo la proiezione del suo film L’urlo, 1968, dove l’esordiente Gigi Proietti e la bella Tina Aumont già si facevano beffe del «movimento», senza denudarsi troppo (dibattito e proiezione si ripetono stamane, al Farnese, con Wilma Labate, regista di Signorina Effe). Poi l’anno scorso Nanni Moretti, il cui cinema è «lassativo» per il regista erotomane classe 1933, l’ha invitato al suo festival, a commentare Chi lavora è perduto, film ancora attuale del 1963.
E com’è che si riproiettano i documentari per la Quadriennale 1964, commissionati da Umberto Eco? Sarà perché l’autore d’origine russa, laureato in legge a Venezia e formatosi alla Cinémathèque parigina, tra un film con Joris Ivens e una chiacchierata con Jean Renoir, vive una nuova fase di rilancio personale e artistico. Che coincide con il progetto di Ziva. L’isola che non c’è, il film che Brass girerà dopo Ferragosto nell’arcipelago dalmata. E con l’idea di risposarsi, lui vedovo dell’adorata Tinta con la trentenne Caterina Varzi, psicologa junghiana, già allieva del controverso Aldo Carotenuto e qui protagonista. «Un uomo come me non resta solo a lungo», dice, mentre tre ragazze siciliane in gita gli chiedono una foto con lui: l’hanno visto in tivù.
A settantacinque anni si vede riscoperto dai giovani e progetta un nuovo film. Ce ne parla?
«Questo è un Paese di ignoranti. Ma si svegliano ora? Il mio surrealismo di stampo francese non è stato mai capito, la censura politica ha fatto il resto. Sono il più erotomane dei cineasti e il più cineasta degli erotomani: lo sostiene la Cinémathèque di Parigi, con l’omaggio “Elogio della carne”. Ziva, invece, sarà una storia pacifista».
In che senso?
«Seconda guerra mondiale: sola su un isolotto morlacco c’è Ziva, il cui marito Branko, guardiano del faro, si trova al fronte. Uno dopo l’altro sbarcano il veneziano Marco, un paracadutista della Raf e il nazista Franz, ai quali una Circe forte e generosa offrirà riscatto. Ne farò un pamphlet contro la brutalità della guerra».
Cambia corso, forse? Per quanto, una donna sola con tre soldati...
«Un po’ di volgarità ci vuole. Anche perché Branko non era in guerra, ma da una contadina magiara, che l’ha raccolto in una foiba, curandolo e amandolo: una storia speculare di carità femminile. Con le note della canzone di Boris Vian Le Déserteur sullo sfondo».
Le femministe, ora, la lasciano in pace?
«Susan Sontag è morta e Camille Paglia si è allineata sulle mie posizioni: per me il significante,cioè il linguaggio, conta più del significato. Inutile parlare: qui chi applica la lezione di Roland Barthes?».
È vero che ha scritto, con Pasquale Squitieri, la sceneggiatura d’un film su D’Annunzio?
«S’intitola Me ne frego! e tratta del Vate quale primo esegeta del Gay Pride, a Fiume: è stato lui, nel 1919, a esortare: “amore libero!”, durante la costituzione del Carnaro. Pensavo a Ben Kingsley, per la parte. Ma mancano i soldi».
La morte di sua moglie Tinta l’ha fatta riflettere sul ruolo della donna?
«Quand’è scomparsa, ero stordito e ho dovuto elaborare il lutto: eravamo una vera coppia e lei alimentava le mie fantasie. Finché rabbia e tristezza son diventate costruttive e Caterina, arrivata da me per girare un dvd sulla mia opera, mi ha ridato nuova energia».
Ora Giulio Andreotti è Il divo nelle sale.

Ma nel 1963 fece censurare Chi lavora è perduto...
«La commissione censura, all’epoca guidata da Franco Evangelisti, lo ritenne offensivo della famiglia, della patria e della morale. Mi limitai a cambiare il titolo e passò. Un classico escamotage all’italiana».

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