Prima di essere un’intervista è stata un libro e prima di essere un libro è stata un diario (il miglior mezzo auto-terapeutico di tutti i tempi). E prima di essere un diario, la verità di Tiziano Ferro, è stata a lungo un pettegolezzo. Siccome è nato a Latina, qualcuno lo aveva perfino ribattezzato «Latina Turner». Un po’ per sfottere, un po’ perchè quando la gente vede un trentenne che lavora da dieci anni, che vende milioni di dischi, che canta in tutte le lingue, che duetta con chiunque e che, soprattutto, guadagna miliardi, pensa erroneamente che non ci sia alcun ordine di problema in grado di scalfirlo. Perché la gente fatica ad attribuire un’anima a chi ha assicurata la pagnotta. Ingiusto, ma inesorabile. Davanti a un giovane di successo, ricco, che manda (inutilmente) in delirio intere generazioni di fan urlanti, tutti faticano a comprendere che la vita possa comunque star addosso scomoda, per certi versi. Invece trent’anni sono tanti, se si decide di viverli «sul bordo». Trent’anni senza mai lasciarsi in pace... Oggi, sulla copertina di Vanity Fair, Ferro annuncia l’uscita (prevista per il 20 ottobre) della sua autobiografia dal titolo Trent’anni e una chiacchierata con papà (Kowalski, 400 pagine, 16 euro) e si toglie dal bordo: «Ho voglia di innamorami di un uomo». Che è poi semplicemente voglia di innamorarsi, nel suo caso. Il 20 novembre del 1995, Tiziano ha iniziato a scrivere un diario e una delle poche cose che si è concesso di promettere a se stesso, un giorno, è stata quella di voler pubblicare quelle pagine prima o poi, anzi: il 20 ottobre del 2010. Come in effetti farà. «Volevo vivere quella parte di me, smettere di considerarla un mostro, qualcosa di negativo, addirittura invalidante». I primi dubbi, spiega, risalgono alla sua adolescenza, quando aveva una fidanzata. A lei li confidò: «Le dissi che pensavo di essere attratto anche dai ragazzi. Mi rise teneramente in faccia, mi disse che non poteva essere vero». Oggi, di quelle voci strafottenti sulla sua omosessualità, confessa che «mi facevano una tale rabbia. Non perché non volessi passare per gay, ma perché la verità è che un fidanzato avrei voluto avercelo».
Nato a Latina il 21 febbraio del 1980, mamma Giuliana casalinga, papà Sergio geometra, un fratello, Flavio, di undici anni più giovane di lui. E poi tutti gli altri. Che lo hanno visto piccolo con quella tastiera Bontempi tra le mani, che i genitori gli regalarono il giorno di Natale, quando aveva cinque anni. Vai a spiegare tutto a tutti. Un giorno, trent’anni dopo. Quando te ne sei andato da Latina «da Tiziano Ferro». Quando ha iniziato a capire cosa poteva diventare, ha scelto di diventarne solo un pezzo. Una voce impastata di talento, di coscienza e di troppo dover essere Ferro. Che ci accarezza e ci sballottola, a noi che l’ascoltiamo, incuranti di quello che per anni le ha lavorato sotto. Ieri, la notizia del suo outing, è apparsa come una liberazione non solo per lui. Ma per tutti quelli che si massaggiano con la sua voce. Bisogna essere generosi, con chi ci rende felici. E con chi ha aspettato troppo per essere felice. Nel 2007, a un altro giornale (Men’s Health), Ferro aveva raccontato di un disagio che lo aveva accompagnato a lungo. Soffriva di bulimia ed era arrivato a pesare 111 chili (come il titolo di un album del 2003), poi, nel corso di dodici mesi era riuscito a perderne 38. Tutta una punizione, tutto un ingabbiarsi, tutto un tenersi in piedi a regimi cattivi, senza darsi retta. Silenziando di qua, dimenticando di là, il ragazzo del Disco di Diamante (che è quello che ti arriva con quattrocentomila copie vendute, per intendersi). Chissà chi temeva che lo abbandonasse, Tiziano, se avesse deciso di riappacificarsi prima con se stesso.
«Niente sarà più come prima» dice oggi, e chissà se lo dice preoccupato o sollevato. «Che cosa succederà dopo?» si domanda a proposito dell’uscita dell’intervista di Vanity Fair e di tutto quanto il suo libro, quello che nel titolo ha «il papà»... «Un paio di anni fa - racconta - ho iniziato un percorso di analisi.
Da tempo non stavo bene, e avevo capito di dover riprendere in mano una serie di cose: dal forzato esilio lontano da amici e famiglia alla relazione col mio lavoro, al rapporto contrastato con l’omosessualità. Così, dopo due anni di duro lavoro su me stesso, sono arrivato a una conclusione: volevo vivere meglio». «Volevo vivere meglio» era il pezzo migliore che avrebbe potuto scrivere.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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