Milano - E adesso? Cosa faranno le trentadue ragazze che secondo la Procura di Milano costituivano l’harem a pagamento di Silvio Berlusconi, e che da un anno cercano in ogni modo di togliersi di dosso il marchio della prostituta? Per le «Olgettine» - come sono state ribattezzate, dall’indirizzo del residence dove parecchie di loro abitavano - i giochi giudiziari si riaprono all’improvviso ieri mattina, quando il giudice Annamaria Gatto apre con una ordinanza a sorpresa il processo a Nicole Minetti, Emilio Fede e Lele Mora, accusati di avere selezionato e reclutato le fanciulle da invitare alle feste a casa dell’ex premier.
Nel processo, secondo la Procura, le «Olgettine» dovevano ricoprire il ruolo di semplici testimoni. Dice invece il giudice: loro sono le vittime. E poiché il reato di cui rispondono Minetti, Fede e Mora è l’induzione e il favoreggiamento della prostituzione, ne consegue che loro sono le prostitute. Pertanto il giudice rinvia il processo al 20 gennaio, per dare tempo alle ragazze di costituirsi parte civile. Ovvero di presentarsi in aula per chiedere ai tre imputati il risarcimento per averle avviate al mestiere più antico del mondo.
Il problema è che fin dall’inizio di questa vicenda (quando anche la Procura, come si legge nei decreti di perquisizione del 14 gennaio scorso, seguiva la linea dettata oggi dal tribunale) le ragazze hanno sempre e compattamente negato di avere fatto sesso a pagamento col premier o con altri. Se un danno abbiamo subìto, dicevano, è stato dal venire pubblicamente indicate con nome e cognome come meretrici. È la stessa linea che nell’altro processo-gemello, quello che vede indagato Berlusconi come presunto «utente finale», sostiene Kharima el Mahroug: non sono una prostituta, e a rovinarmi son stati i giornali.
Cosa faranno adesso le «Olgettine»? Cambieranno linea, e si costituiranno nel processo? O resteranno alla finestra? In attesa del 20 gennaio, si può prendere atto che l’ordinanza del tribunale segna una sorta di svolta culturale nei processi per il «Rubygate». La Procura, dopo i tentennamenti iniziali, aveva trattato i reati del trio Fede-Mora-Minetti come dei reati contro la morale pubblica. Il tribunale ribalta quest’impostazione: accanto e oltre la pubblica morale vengono «la tutela della dignità e della libertà della persona umana, con particolare riguardo alla libertà di autodeterminazione dei soggetti nella sfera sessuale, bene quest’ultimo da ritenersi oggi preminente rispetto al primo». La libertà della donna innanzi tutto insomma.
A sostegno della propria interpretazione innovativa, i giudici di Milano citano due sentenze della Cassazione. Una, che sembra toccare più marginalmente il «Rubygate», riguarda un avvocato di Reggio Calabria assolto dall’accusa di avere fatto sesso orale con la segretaria quattordicenne. Mentre più interessante è leggere la seconda sentenza citata ieri dai giudici di Milano, la condanna nel 2004 dei gestori di un locale di lap dance a Brescia.
Perché oltre a dichiarare «vittime» le ballerine, in quell’occasione la Cassazione spiegava per filo e per segno cosa si deve intendere per atto sessuale, e sembra una descrizione ritagliata su misura per le tesi della Procura milanese nel caso Ruby: «Nel corso dello spogliarello attuato nei locali privati avvenivano palpeggiamenti reciproci, da parte degli uomini su seni e glutei nudi, da parte delle ragazze sui genitali senza che il cliente si denudasse (...
) per atto sessuale non deve necessariamente intendersi il coito di varia natura o la masturbazione, nella fattispecie esclusi, ma tutte quelle attività che danno origine ad eccitazione e a soddisfacimento sessuale con appagamento della propria libido».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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