TOM ROBBINS La prosa che picchia in testa

Arriva in Italia una raccolta di racconti dell’autore statunitense: «Lo scrittore ideale? È quello che fa cadere dalla sedia i lettori con la bellezza delle sue frasi»

TOM ROBBINS La prosa che picchia in testa

Nessuno scrive come Tom Robbins. Posseduto dall’immaginazione, sovversivo esteta privo di retorica, Tom Robbins viene prima. Prima del beat, prima degli hippy, invece dell’lsd. Robbins è il Jackson Pollock della letteratura: con lui è possibile attraversare linee, senso e colori mai visti prima da nessuno, eppure almeno da un secolo sotto gli occhi di tutti. Forse perché Pollock Tom Robbins lo conobbe davvero, durante i suoi stralunati vent’anni al Greenwich Village, quando intorno al 1955 per la prima volta vide un quadro: «Fino ad allora avevo visto soltanto riproduzioni. Fu folgorante. Allora presi a frequentare il Cedar Bar, dove si riuniva la scuola degli espressionisti astratti. Li ascoltavo parlare e non capivo molto, tranne il fatto che erano dei geni fuori di testa».
Forse l’immaginazione di Tom Robbins prende il via dai discorsi di Pollock, su cui iniziò a scrivere un libro quando giunse a New York nel 1964 «perché la mia etica protestante protestava che ci voleva una ragione per stare nella Grande Mela. Ma non resistetti comunque a lungo. La stanza cominciava a puzzare, leggevo Ken Kesey e avevo visioni del Nordovest. Così dopo nemmeno un anno, nel mezzo della notte, mollai e me ne andai». O forse la grandiosa surrealtà mai ombelicale, sempre mitologica di Robbins viene dalle storie che gli raccontava sua madre Katherine, infermiera figlia di predicatori battisti, che amava raccontare favole religiose per bambini e lo incoraggiò a leggere e scrivere durante la sua infanzia nella piccola cittadina di Blowing Rock, North Carolina: «La mia famiglia era una versione “Bible belt” dei Simpsons e io impersonavo sia Barth che Lisa. Ero allo stesso tempo una peste e un sensibile spirito artistico. Dicotomia che a volte mi confonde ancora oggi».
I reading di Tom Robbins hanno riunito per anni folle oceaniche. La rete pullula di siti dei suoi fan. Le rockstar lo adorano. È stato accostato a turno a tutta la controcultura americana. Ha vissuto à la hippie per lunga parte della sua vita: lsd, quando ancora era legale, una serie di mogli, un figlio che si chiama come una band degli anni Settanta e una folla di lettori che gli ripetono di continuo: «Mi hai cambiato la vita». E quando ha servito la patria nell’Air Force, è riuscito a trasformarsi in un docente di meteorologia per le truppe in guerra in Sud Corea. Autore culto di otto romanzi, tra cui Il nuovo sesso: cowgirl (1993) - dal quale Gus Van Sant trasse il film omonimo con Uma Thurman che sfoggiava l'indimenticabile pollice enorme con cui la splendida modella protagonista Sissi Hankshaw fa l’autostop da Manhattan al Dakota - Uno zoo lungo la strada (1997) e Natura morta con picchio (1998), tutti pubblicati in Italia da Baldini Castoldi Dalai, Robbins ha raccolto due anni fa negli Stati Uniti una serie di racconti e scritti vari, alcuni dei quali inediti e quasi tutti rielaborati, che ha battezzato con uno dei suoi fatidici titoli, Le anatre selvatiche volano al contrario, e che arriva in questi giorni in libreria anche da noi (Baldini Castoldi Dalai, pagg. 288, euro 17). Il volume è gustosissimo. Gli scritti sono preceduti da un’introduzione che è un capolavoro di retorica narrativa. I racconti, i ricordi, le annotazioni sono spassosi allo spasimo. Alcuni, come Baciarsi e Sfida alla gravità, sembrano un’interminabile striscia dei Peanuts composta a quattro mani con il Dalai Lama. Fatto sta che sono quasi tre anni che Robbins non sforna un nuovo romanzo. E questo, per una mente malata di iperattività fantasmagorica come la sua, è preoccupante. Perciò abbiamo deciso di stanarlo «dal suo lato della boccia dei pesci», a Seattle, dove vive, per intervistarlo. Prima di riuscirci, abbiamo dovuto attraversare esperienze robbinsiane come sospettare che gli zingari ci avessero rubato il fax, aspettare che Mr. Robbins vendesse il suo allevamento di pesci in Messico e attendere che la cabala del numero 23, da cui è piacevolmente ossessionato, si mostrasse favorevole. Ma siamo stati ricompensati e abbiamo finalmente potuto chiedergli che fine ha fatto lo scrittore che è in lui.
«Ho subito quattro operazioni agli occhi, da cui sto guarendo soltanto ora. E ho avuto una grave ernia (sapevo che non avrei dovuto cercare di portare in braccio su per le scale quelle due bionde, ma erano sorelle e non me la sono sentita di separarle). Sicché non ho prodotto molto nell’ultimo periodo. Ma ho iniziato un libro per bambini sulla birra. Ho dei dubbi però che negli Stati Uniti qualcuno voglia pubblicarlo. In Italia, magari?».
Chissà... Ma in questo mondo soffocato dalle emergenze, che cosa secondo lei è davvero urgente scrivere?
«Dal punto di vista letterario, quel che accade nel mondo non è così importante. Se siano i migliori o i peggiori tempi possibili. Se per dessert ci siano zabaglione o pallottole. L’eterno problema dello scrittore è meditare sul teatro cosmico quotidiano in modo da risvegliare nel lettore il suo senso di meraviglia».
La scrittura, e la lettura, allora sono come un talismano per attraversare l’esistenza?
«Ci sono passaggi, frasi, addirittura parole che ciascuno di noi conserva nel proprio cuore come talismani. Tuttavia, riguardo alla mia musa personale - quell’invisibile dea che si suppone dovrebbe ispirarmi - non sempre si comporta come un angelo custode. Anzi, spesso è un fantasma, che non mi lascia dormire. O un’amante seducente ma infedele, che quando dovrebbe giacere accanto me va a letto con Umberto Eco».
Magari quella musa si può addomesticare... con una scuola di scrittura?
«Le scuole di scrittura creativa possono trasmettere alcune valide tecniche. Ma il talento, che alla fine è quel che paga, mai. Anzi, spesso quelle norme e preconcetti uccidono l’immaginazione, l’originalità, l’entusiasmo. Gli aspiranti scrittori farebbero meglio a leggere romanzi, scrivere ogni giorno - anche in caso di colpo della strega, pensare con la propria testa, praticare la solitudine e aggrapparsi all’immaginazione come se fosse l’ultima goccia di afrodisiaco rimasta sulla terra».
Asociali insomma... Che n’è dell’eventuale ruolo politico della scrittura? Si è mai sentito, in tutti questi anni, uno scrittore «impegnato»?
«Il posto giusto per la politica è il giornalismo. Nella narrativa, le istanze politiche devono sempre essere subordinate allo stile e alla storia. E poi la politica, anche quella rivoluzionaria, ha sempre a che fare con l’autorità e il controllo. E la scrittura è libertà dal controllo. Scrittori e artisti non devono servire padroni né slogan. A parte “Vivi e lascia vivere”».
Come deve essere uno scrittore ideale?
«Deve farmi pensare, ridere, eccitare. Farmi cadere dalla sedia per la bellezza della sua prosa. Far buchi nella libreria come un picchio umano. Scrivere avvolto nelle pelli d’animale del mito e nel pigiama di seta del misticismo. Voglio che mi frulli il cervello, che sia il mio matador».
C’è chi dice che i suoi libri sono illeggibili perché descrivono sempre situazioni, luoghi e persone irreali.
«Sono sorpreso. Le cose di cui scrivo sono dappertutto. Per vederle basta prendere a prestito un telescopio felliniano e distanziarsi dalla tirannia delle menti ottuse. Questo mondo può essere un posto meraviglioso. Rendiamocene conto e usciamo ad abbracciarlo».
Che metafora userebbe per descrivere la realtà contemporanea?
«Una scimmia è stata lasciata libera nei pressi di una splendida piantagione di banane. Ma preferisce giocare con un pistola carica».
Lei ha avuto un’educazione molto religiosa. Quanto ha influito sulla sua visione del mondo?
«Inutile negarlo: le due cose che interessano davvero gli esseri umani sono il sesso e la religione. Io sono sempre stato curioso a proposito di entrambi e questa curiosità si riflette nella mia scrittura. Ecco il mio credo: “Credo in tutto, nulla è sacro. Non credo in nulla, tutto è sacro”».
Chi sceglie i titoli dei suoi libri?
«Nemmeno con un coltello alla gola permetterei a un estraneo di scegliere i titoli per i miei libri.

Mi montano in testa da soli, panna prodotta dal latte verde e viola della mia immaginazione. Ma non potrei mai portare quel latte in laboratorio per farlo analizzare. Non è saggio esaminare le cose dell’immaginazione troppo da vicino».

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