Ci sono tanti modi, per diventare poeta. Tomas Tranströmer, al secondo anno di liceo ne scelse uno inusuale: litigare con il prof di latino e greco. Si chiamava Per Venström, ribattezzato dalla classe «Pelle di Sinistro» o «il Caprone». Ce laveva con il ragazzino allampanato e introverso che scribacchiava atteggiandosi a modernista, preferendo la moda ai classici. Il Caprone non capiva (ai caproni e ai professori succede spesso...) che Tranan, la gru, come lo chiamavano i compagni, sera già innamorato di Orfeo, conquistato dall«alternanza tra una sgangherata banalità e un icastico sublime».
Ci ripensava, il sessantenne Tranströmer, scrivendo i frammenti autobiografici di I ricordi mi guardano. E spiegava: «Erano i presupposti della poesia. Attraverso la forma (la Forma!) si poteva elevare qualcosa. Le zampette del bruco erano sparite, si aprivano le ali». A quei bozzetti disegnati dalla memoria e ora editi da Iperborea, tradotti e prefati da Enrico Tiozzo, va stretta la definizione «ritratto del poeta da giovane», poiché contengono, cristallizzati nella consuetudine di una produzione non vastissima ma densissima, i punti focali di unarte meritevole del premio Nobel, ottenuto il 6 ottobre scorso e ritirato pochi giorni fa, regalo di compleanno differito di qualche mese per le ottanta primavere.
Primavere ed estati, e autunni e inverni carichi di luci e tenebre sono le stagioni liofilizzate da Tranströmer con un lavorìo sotterraneo, tormentato. Nei suoi versi il giallo del sole, il bianco della luna, il blu e il nero della notte sono senza sfumature, limpidissimi, tersi, metallici. Però tuttaltro che freddi e impersonali. Lautore, infatti, interiorizza la natura, la passa al vaglio della propria severissima analisi (ha a lungo esercitato la professione di psicologo) e poi ce la restituisce in quadri essenziali, litografici. Ingrato è tuttavia il compito del poeta, di ogni poeta, che voglia far parlare la natura. «La natura non ha parole./ Le pagine non scritte si estendono in tutte le direzioni». Tranströmer, infatti, non cerca la «parola», bensì la «lingua», lespressione silenziosa, inequivocabile dei sensi, lunica che possa replicare e custodire la vita, dipanata in tessere spazio-temporali in cui le due dimensioni si confondono e si sovrappongono, trovando soltanto nel sogno o nella musica (oltre che psicologo, egli è anche compositore) le vie di fuga prospettiche. Come descrivere il bambino che si perde nel centro di Stoccolma, o che vaga nel museo di storia naturale, o che scopre la magia dei libri sullAfrica o sul Medioevo; e ladolescente che avverte nellaria il mefitico vento nazista, o che sperimenta, in una notte terribile, la carezza gelida della follia? Impossibile farlo, soprattutto a distanza di mezzo secolo.
Nel mezzo secolo che precede la stesura di I ricordi mi guardano Tranströmer ha inseguito, stimolato da un sacro fuoco quasi mistico (ma lui si schermisce in unintervista del 72, facendo professione di sincerità, più che di modestia: «Un mistico è uno che è stato faccia a faccia con Dio. Io lho solo visto passare velocemente di lato. E a volte non sono nemmeno sicuro di questo») la comprensione muta, evidente delle cose. Una ricerca che emerge, a esempio, nella raccolta La lugubre gondola, ora riproposta, dopo ledizione Herrenhaus del 2003, da Rizzoli, a cura di Giovanna Chiesa Isnardi, autrice del saggio-commento La tastiera muta. È unantologia del 96 contenente tutti i nuclei tematici e i ritmi lessicali dellautore che le conseguenze di un infarto hanno reso pressoché afasico da circa un ventennio. E in cui la consapevolezza della transitorietà dellesistenza, invece di sfociare nella disperazione spinge allimpegno dello scavo, alla cancellazione del superfluo, al rigore, comune denominatore di forma e contenuto, e infine alla gioia, per quanto effimera, della rivelazione.
Presente anche nelle opere giovanili o della maturità, il modello dellhaiku giapponese, con la rigida griglia delle 17 sillabe, è ormai diventato il prediletto da Tranströmer, come dimostra Il grande mistero, lultima raccolta che ci offre Maria Cristina Lombardi per leditore Crocetti, al quale dobbiamo anche Poesia dal silenzio, del 2008.
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