Cultura e Spettacoli

Tomasi di Lampedusa, quante bugie per un delitto

Dei salotti bizantini frequentati dal giovane d’Annunzio, donna Matilde Serao non perdeva un avvenimento, uno scandalo, un intrigo. L’aristocrazia trionfante ai tempi delle decadenze umbertine in lei aveva trovato la più attenta descrittrice. I suoi scritti, romanzi o cronache che fossero, dipingevano i trasformismi e i primi intrallazzi della vita parlamentare, le miserie quotidiane e le frivole raffinatezze del bel mondo, raccontate con spruzzate di affabile psicologismo. Conosceva tutti: parvenu e nobili di rango antico, borghesi arricchiti e avventurieri alla ricerca del successo. E conosceva anche il tenente Vincenzo Paternò e la contessa Giulia Trigona di Sant’Elia, nomi oggi sconosciuti ai più, ma che tennero a lungo le prime pagine dei giornali al tramonto dell'epoca giolittiana.
Ai due, la Serao dedicò un romanzo scritto tra il 1913 e il 1914, ma rimasto incompiuto e pubblicato solo postumo. Il titolo era L’ebbrezza, il servaggio e la morte: l’ebbrezza era l’insana passione che aveva unito il militare, dongiovanni da strapazzo, giocatore incallito, indebitato fino al collo e l’adultera aristocratica, dama d’onore della regina Elena e consorte di un personaggio in vista, ex sindaco di Palermo. Il servaggio alludeva all’inesorabile meccanismo per cui quella relazione si trasformò per la contessa nel tormento feroce di un uomo violento e geloso. La morte era il tragico epilogo della vicenda, consumatosi il 2 marzo del 1911 in una squallida stamberga nei pressi della Stazione Termini. Qui la Trigona fu ritrovata in un lago di sangue, col collo reciso, distesa sul letto ai piedi del quale giaceva svenuto l'amante, che vanamente aveva cercato il suicidio.
Ciò che accadde nei giorni successivi sembrò la scontata trama di un romanzo d’appendice, con la giovane morta sublimata sulla carta stampata come l’eroina condannata dalle illusioni del filtro amoroso «che dà l’oblio e l’estasi della gioia infinita» e l’indegno sfruttatore nelle vesti prima del volgare seduttore, poi dello spietato omicida. Il processo aggravò giorno dopo giorno la posizione di Paternò che, nell'indignazione generale di un pubblico assetato di giustizia, fu condannato all’ergastolo in quanto giudicato capace di intendere e di volere. Nessuna attenuante gli fu concessa e la vicenda finì presto dimenticata, nel doloroso rimpianto della sventurata peccatrice, che troppo tardi aveva tentato di redimersi dalla colpa.
Si seppe poi invece che le cose erano più complesse di come sembrarono: la sognatrice aveva investito l’amante con una montagna di lettere e invocazioni che avrebbero fatto l’invidia delle più lacrimevoli e voluttuose scrittrici rosa, salvo poi ritrarsi quando il compromettente ménage, conosciuto e deprecato dalla Regina, rischiava di precluderle l’alta società. Venne anche alla luce, prima che la cosa venisse occultata, che l’assassino aveva avuto compromettenti rapporti politici col marito della vittima in quanto mediatore tra lui e la mafia, in un intreccio a cui non erano estranee le logge massoniche siciliane.
Su tali oscuri collegamenti indaga Fabio Troncarelli in un libro (Il segreto del Gattopardo, Salerno editrice, pp. 137, euro 10,50) in cui la vicenda col corredo di rilievi criminologici e analisi storico-psicologiche appare molto più inquietante di una banale storia passionale a tinte fosche. Emerge inoltre un elemento che interessa, oltre che all’appassionato di costume, anche quello di critica letteraria. La sorella di Giulia Trigona, Beatrice, era infatti la madre dell’allora tredicenne Giuseppe Tomasi di Lampedusa. L’intera famiglia fu travolta da insinuazioni e pettegolezzi e il giovane rampollo non poté che risentirne. È significativo, ad esempio, che l’autore del Gattopardo neghi, con sospetta insincerità, di avere qualsiasi ricordo della zia uccisa, e che i suoi «Ricordi d’infanzia» si interrompano bruscamente proprio al momento del fattaccio. Pochi sanno inoltre che in un capitolo mai scritto del suo capolavoro, egli pensava di descrivere un incontro in un albergo tra Angelica e un suo amante. Una coincidenza? Forse è una traccia non sufficiente per spiegare quello che Troncarelli definisce «il segreto del Gattopardo», come troppo esile è il collegamento tra l’assassinio della zia, il trauma psicologico soffertone e il pessimismo amaro e diffidente coltivato dallo scrittore.

Un’ipotesi investigativa che meriterebbe altri, più tangibili, suffragi, eppure non priva di fascino e suggestione.

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