Toni soft di Pechino dopo l’addio di Google ma i siti proibiti sono ancora inaccessibili

La Cina ha reagito prima con rabbia, poi cercando di raffreddare i toni, alla chiusura del sito cinese di Google, decisa lunedì a sorpresa dal colosso di Mountain View dopo due mesi di polemiche con Pechino. Da ieri, gli internauti cinesi vengono reindirizzati sul sito della compagnia che ha sede a Hong Kong. Le conseguenze pratiche del colpo di teatro sono ancora difficili da decifrare dopo un’intensa giornata di frenetiche ricerche online e di ipotesi sollevate da utenti ed esperti del web in Cina.
Poco dopo l’annuncio dell’azienda Usa, un funzionario governativo citato dall’agenzia Nuova Cina ha accusato Google di non aver «rispettato la parola data» al momento del suo ingresso nel Paese, nel 2006. Col passare delle ore, Pechino è sembrata voler smorzare i toni di una polemica esplosa mentre Cina ed Stati Uniti sono ai ferri corti su una vasta gamma di temi che vanno dal commercio, al Tibet, alle relazioni con Taiwan, l’isola di fatto indipendente che Pechino rivendica e alla quale Washington continua a fornire armi.
Un portavoce del ministero degli Esteri ha sostenuto in una conferenza stampa che «l’incidente di Google è un atto isolato di una compagnia commerciale, non vedo come possa avere alcun impatto sulle relazioni con gli Usa, a meno che qualcuno non lo voglia politicizzare». Anche gli Usa hanno minimizzato: «Quella di Google è stata una decisione commerciale», ha fatto sapere il Dipartimento di Stato. Ieri gli internauti che hanno provato ad aprire i siti proibiti utilizzando Google.com.

hk sono rimasti delusi: le pagine web sono ancora inaccessibili. «Spostando il traffico su Hong Kong - ha spiegato un blogger - Google non è obbligata ad usare i filtri imposti dal governo a chi opera in Cina. Però non può impedire che il governo blocchi i contenuti sgraditi».

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