Lasciamolo pure alla Spagna, il rottame di questo Tour. È il luogo perfetto dove depositarlo. Soltanto lì potranno festeggiare ineffabili la corsa più disastrata della storia. E soprattutto la più ingiusta. Ingiusta per i motivi espressi personalmente, su queste stesse pagine, alla vigilia: cioè leliminazione spietata di tanti corridori daltri Paesi e lo scandaloso benvenuto ai paladini di Spagna, terra natale della famigerata «Operacion Puerto», madre di tutte le stragi antidoping.
Il risultato è esemplare (in questo, il Tour si rivela sempre molto sincero): vince lo spagnolo Contador, sei dei primi dieci sono spagnoli, tredici dei primi ventitré sono spagnoli. Laugurio è di migliorarsi ancora: lanno prossimo, dieci nei primi dieci e venti nei primi venti. Non è impossibile, anzi è probabile: con la giustizia vergognosa di questo ambiente, correranno solo loro.
È tutto qui, il primo dei problemi. Quello che sovrasta tutti gli altri: la giustizia strabica e cialtrona, la giustizia ingiustissima, che sè messa in moto dopo il clamoroso scandalo madrileno. Lo sappiamo, comè andata: la Germania cala la ghigliottina sui suoi, lItalia sui suoi, la Spagna fa finta di nulla. A seguire, il capolavoro della federazione mondiale (Uci), cioè del governo chiamato a governare sulle singole federazioni: nemmeno un timido invito alla succursale iberica perché provasse a vederci più chiaro. Niente. Il risultato merita dessere ribadito e rimarcato: la Spagna è la nazione con il più alto numero di partecipanti al Tour (quaranta), la Spagna ne piazza sei nei primi dieci, la Spagna ne piazza tredici nei primi ventitré. Complimenti alla Spagna, lunica nazione che dimostra di saper stare al mondo, in questo mondo di.
Adesso però viene il bello. Si apre il dibattito. Gli stessi che in dieci anni hanno desertificato il pianeta ciclismo, come neanche una certosina ripassata di napalm sarebbe riuscita, sono al lavoro per il rilancio. Mentre i francesi, che nella vita hanno sempre adorato più la forma della sostanza, si godono comunque la megalomane parata sui Campi Elisi (il dubbio è che organizzino tre settimane di Tour solo per questo), già si susseguono proposte, prese di posizione, trovate geniali. La più fresca sarebbe questo ritorno alla corsa per squadre nazionali, idea che comunque anche il patron del Giro, Angelo Zomegnan, coltiva pensando al centenario del Giro, nel 2009. Premesso che un progetto del genere si scontrerà con gli interessi dei club, scatenando nuovi polveroni, non è comunque questo il problema. Prima delle formule e delle ideone, in qualunque sistema - sia uno Stato sovrano, sia un semplice gioco da tavolo - servono le regole. So benissimo che questo termine scatenerà allergie e coliti a tanta bella gente del ciclismo (a qualcuno suonerà completamente esotico). Ma di questo, adesso, bisogna subito parlare. Altro che nazionali, altro che marketing. Prima, le regole. Poche, certe, uguali per tutti.
Di sicuro, nessuno deve neppure più azzardarsi a partorire mostri come codici etici e autocertificazioni, cioè quel ciarpame fumoso e ruffiano di alti princìpi che nessuno mai rispetta. Il metodo delle belle parole ha fallito. E ha pure rotto lanima. Se davvero si vuole ricominciare in un altro modo, bisogna soltanto scrivere nero su bianco che chi sbaglia viene buttato fuori. Ovunque si trovi, di qualunque nazionalità sia. Italiani, tedeschi, francesi, e finalmente anche spagnoli: pagano tutti lo stesso prezzo. E chi dovrebbe garantire questa giustizia giusta, rigorosa e universale? Per vocazione naturale, toccherebbe al governo che sta sopra tutti quanti, cioè alla federazione mondiale. Se la garantisce, è la benvenuta. Se non la garantisce, bisogna interdirla. Trovando qualcuno o qualcosa che ne faccia le veci.
Lasciando alla Spagna le glorie del suo rottame, non resta che mettersi alla finestra. Sarebbe utile una pausa, come ha fatto il calcio italiano dopo il caso Raciti: così, per raffreddare la situazione e trovare una via duscita. Ma è certo che i genialoidi del ciclismo non se la prenderanno.
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