Tragico gioco o suicidio? Il mistero nascosto nel mondo di Andrea

CHOC A scoprire il cadavere, la mamma: intorno al collo aveva il cordino della tuta

Tragico gioco o suicidio? Il mistero nascosto nel mondo di Andrea

Andrea, nove anni, suicida. Siamo ai confini della realtà, ma questa è la realtà: in un paese alle porte di Milano, dentro la casa decorosa di due onesti lavoratori, un bambino estrae il cordino dalla tuta e si impicca a una mensola. Quando la mamma torna, sono inutili tutti i tentativi di richiamarlo in vita. Non le resta che piangerlo, assaporando un acre anticipo del suo amaro futuro: lo piangerà per il resto dei giorni, con un’angoscia moltiplicata, perché non ha nemmeno un perché. Lo cercherà sempre, questo perché. Di giorno e di notte. Ma una risposta non l’avrà. La sovrasterà invece una domanda, la stessa domanda che tutti i genitori già si pongono ogni sera, prima di dormire, ripensando ai crucci e ai tormenti delle loro creature adagiate nell’altra stanza: dove ho sbagliato, che cosa avrei potuto fare, per evitargli la sofferenza?
Andrea soffriva, questo è certo. Incerto e vago tutto il resto. Pietrificati nel silenzio i genitori, sono parenti e conoscenti a offrire possibili spiegazioni. Al centro della discussione, una nota sul diario l’ultimo giorno di scuola. Sarebbe questa nota il motivo scatenante. Al pomeriggio Andrea ne parla con la mamma, la mamma lo riprende («ma senza esagerare», precisano protettivi gli zii). Come punizione, sempre la mamma decide di non comprare la maglietta nuova promessa per la festa serale di fine anno. Uscita poi a sbrigare commissioni, come sempre tranquilla per la presenza nello stesso edificio dei nonni, al ritorno l’aspetta la più feroce e ingiusta scoperta che possa toccare ad una madre: Andrea è morto, senza nemmeno spiegare perché.
La nota, dunque. Ma non solo. Raccontano che Andrea, bravissimo nelle diverse materie, si sentisse al centro di una vera e propria persecuzione da parte di una maestra. «Non la voleva più, non la sopportava più», testimonia una zia. Un altro zio rivela che Andrea sopportava a scuola una vita d’inferno, perché smilzo e occhialuto com’era finiva sempre al centro di scherni e di scherzi a opera dei compagni. E le maestre? Le maestre non capivano: magari lui si lamentava, reagiva, si agitava, e loro punivano lui, anziché fare giustizia sugli altri.
Ovviamente, dalla scuola arriva la versione che più restituirebbe un minimo di pace, almeno a chi insegna: Andrea non aveva disagi particolari, la sua fine è solo il terribile epilogo di un tragico gioco. Ricorre così spesso, questa definizione, nelle disgrazie infantili: un tragico gioco. Come la tragica fatalità che si accanisce sugli adulti. E tutti noi, alla fine, ci ritroviamo con una punta di egoismo a sperare che in fondo, sì, davvero, sarebbe meglio, anzi no, meno peggio, se fosse andata proprio così: un maledetto, dannatissimo, tragico gioco di bimbo. Dobbiamo piangere inconsolabili una candida vittima dell’incoscienza.
Purtroppo la verità è ben più cruda: tutto parla di suicidio. Non c’è una sola cosa, una sola causa, una sola versione, tra le tante possibili, in grado di restituire un senso a tanta, insostenibile, insensata tragedia. Certo verrebbe molto comodo, a noi famiglie, concludere ancora una volta - nel modo più crudele - che la scuola è inadeguata. Lo facciamo già troppo spesso, coprendo le stupidaggini dei nostri figli, coprendo soprattutto le omissioni nostre. E ovviamente verrebbe molto comodo, a loro della scuola, concludere che dietro non c’è una famiglia: anch’essi lo dicono già troppo spesso, per coprire omissioni e degrado propri, per coprire le stupidaggini di certi insegnanti che hanno sbagliato mestiere (e comunque resti chiaro: non è un mestiere, è una missione difficilissima e nobilissima, altro che mestiere).
Viene facile e comodo dire un sacco di frasi fatte, da una parte e dall’altra. Nell’eterno rimpallo, proprio in mezzo al perfido gioco, ci stanno loro, i nostri figli. Quanto a teoria siamo insuperabili: sappiamo che i figli devono avere dietro una forte famiglia, in grado di dire anche qualche no, e che devono avere davanti una scuola seria, in grado di capirli, stimolarli, aiutarli, assecondarli, però senza cadere nello stupido permissivismo. Noi adulti abbiamo tutti dieci, in teoria dell’educazione. Poi però ci capita addosso il bullismo. Ci capita la cocaina tra i banchi. Ci capita lo stupro del branco. Ci capita di vedere tutto quanto su YouTube. Un giorno, ci capita persino il fatto più atroce: Andrea, nove anni, suicida. E la nostra teoria?
La nostra teoria, in teoria, andrebbe declinata ogni giorno, in ogni scuola, in ogni aula, ad ogni singolo alunno. Perché ciascuno ha bisogni, carattere, personalità, interessi, problemi, sogni unici e specifici. È chiaro che l’impegno diventa pesante. Ma è questo che dovremmo sforzarci di fare. Poi, il vero capolavoro che tocca a noi, noi famiglia e noi scuola, non è evitare ai nostri cuccioli qualsiasi forma di sofferenza e di disagio, eliminando tutte le materie pesanti e tutte le maestre pedanti, mettendoli al riparo dagli scherzi idioti dei compagni. La missione è più complessa e più ambiziosa: attrezzarli. Fornire loro un pratico corredino per affrontarla meglio, questa vita così complicata. Questa vita che è sovraffollata di compagni idioti, di materie pesanti e di maestrine pedanti. Sempre, fino alla fine. L’obiettivo, così, non è evitare la nota: è sopportarla. Per uscirne più forti. Per crescere davvero. Per diventare migliori.
Certo, azzeccare tutte le mosse del bravo adulto è un’impresa. Complimenti a chi ci riesce. Ma soprattutto a chi ci prova.

Se poi riuscissimo anche a inculcare nuovamente nelle loro testoline quanto sacra, importante, terribile sia la morte, forse un giorno non ci ritroveremmo nemmeno più a parlare di tragico gioco. Il tragico gioco sta dentro il videogame, dove la morte è così stupida e divertente.

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