Vancouver 2010

È il tramonto del "kostnerismo", morbo che ha infettato gli azzurri

Da quattro anni Carolina Kostner è un’atleta simbolo, sexy e patinata, ma senza risultati all’altezza. Non sa reggere la pressione. E come lei altri della spedizione italiana a Vancouver

È il tramonto del "kostnerismo", morbo che ha infettato gli azzurri

Elisa domanda: «Ki mi sa dire dove trovare su Youtube il video della prova di Carolina Kostner?». Elisa è giovane e figlia della generazione essemmesse che storpia e accorcia le parole. Fiore dev’essere più grandicella, almeno non violenta le parole e risponde: «So che Carolina ha steccato di brutto... poverina. Quattro anni di preparazione e... mah! che tenera». Le interrompe una che forse è un uno: «Il video, le foto, le trovate sul sito di Sportmediaset...». «Poverina» ripete un’altra, «ora tutti a puntarle il dito contro». «Macché poverina...» sibila l’ultima, «oltre alla bruttissima figura, ha fatto pure sfigurare l’Italia. Piuttosto le chiederei un risarcimento danni... Che vergogna...».

Carolina non è la Ferrari nel senso di macchina e formula uno; e non è il calcio nel senso di azzurri e cittì Lippi e Juve, Milan, Inter. A dirla tutta, non è neppure un agitatore d’animi come José Mourinho. E allora perché un suo tonfo smuove gli umori in questo modo? Perché la gente si prende briga di andarla a cercare sulla grande rete pur di vederne le capitombolate? E perché infierisce su di lei anziché limitarsi a osservare la povera ragazza che puntualmente infrange il sogno suo e altrui sul freddo ghiaccio?

È che la gente è stanca del kostnerismo. Trattasi di un processo di esaltazione collettiva che riguarda molti altri azzurri; un fenomeno in grado di caricare a pallettoni ottimi atleti che però, magari, forse, chissà, non sono e non saranno i fuoriclasse che crediamo. Quattro spatasciate sul freddo ghiaccio parlano per Carolina e dicono due cose: la prima, l’altra sera era in tilt. La seconda: Carolina, dopo essersi allenata negli States per stare lontano da tutto e tutti, è arrivata a Vancouver che non era un’atleta. Era una splendida, affascinante e sexy supernova pronta ad esplodere. E così è stato.
La fine del kostnerismo significa però l’inizio di un nuovo giorno. Per la diretta interessata e per tutti gli altri atleti azzurri. Un nuovo giorno dove a nessuno verrà più in mente di scegliere come portabandiera per le olimpiadi di casa - Torino 2006 - una diciannovenne altoatesina che al di là di qualche bronzo non aveva vinto nulla. Per dire: Valentina Vezzali, che di ori e olimpiadi ne ha collezionati tanti da non contarli, forse alzerà il tricolore nel 2012. Forse. Quella di Carolina fu invece scelta molto patinata, molto fotografica e luccicante, epperò luccicarono sotto flash e riflettori anche le gambe lunghe e incerte della bella ragazza finita a terra nel giorno della grande caccia alle medaglie. Quattro anni fa come ieri. Anzi, meno di ieri.

La fine del kostnerismo sta nelle parole finalmente crude, quasi da essemmesse di Carolina non più statuina svampita ma donna incacchiata quando dice «voi non potete sapere quanto male faccia e quanto sia difficile dopo una simile serata fare l’inchino davanti al pubblico... ma io non voglio arrendermi, io non posso perché non me lo merito e non se lo merita la gente a cui voglio far vedere quanto bene so pattinare. Non sono balle, il talento è vero. Il mio mondo non si ferma stasera». Kostnerismo finalmente agli sgoccioli anche nelle parole del presidente del Coni, quando Petrucci parla di «delusione e tristezza» e dice «ci aspettavamo grandi cose da lei, quando balla è bellissima, ma il punteggio è obiettivo».

Ecco il punto: l’obiettività dei risultati. E quelli di Vancouver raccontano di una spedizione azzurra in gran parte affetta dal suddetto morbo, convinta com’era che i Blardone e le Karbon fossero anche dei piccoli Tomba e Compagnoni; che oltre al loro immane talento avessero le stesse spalle grandi e forti di quella razza lì insomma: i campioni. Uomini e donne a cui, anche nella sconfitta, a nessuno mai verrebbe in mente di chiedere un risarcimento.

Neppure per scherzo.

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