«Tre detenuti su quattro escono prima di dieci giorni»

da Milano

Non è stupito dalla catena di scarcerazioni. E mette subito in chiaro il suo pensiero: «In Italia tendenzialmente escono tutti».
Dottor Ardita, che significa tendenzialmente?
«La realtà è sotto gli occhi di tutti: tolta la grande criminalità organizzata, trattata con la necessaria durezza, gli altri, tutti gli altri, prima o poi escono».
Prima di aver scontato la pena?
«Prima, prima. Anzi, il più delle volte per il malfunzionamento del nostro sistema processuale, non arrivano nemmeno a scontare quella pena».
Sebastiano Ardita, è un osservatore istituzionale, suo malgrado, sul fronte dell’incertezza della pena. Ardita è infatti il direttore dell’area detenuti del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E conosce molto bene tutti i guasti della macchina.
Da dove cominciano i guai?
«Dal nostro processo. Che unisce, anzi somma, le garanzie del vecchio sistema inquisitorio con quelle del processo accusatorio».
Risultato?
«La paralisi. O meglio, chi va in carcere viene letteralmente buttato fuori. Tre detenuti su quattro escono entro dieci giorni. E non per responsabilità dei giudici che si limitano ad applicare la legge. Ci sono infiniti strumenti di verifica, di analisi, di messa in discussione dell’operato dei magistrati».
Scusi, ma non c’è la presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva?
«Sì, ma se la polizia raccoglie elementi contro qualcuno, questi elementi, difficilmente, molto difficilmente, tengono nella fase della custodia cautelare. Il sistema, frenato da numerosi sbarramenti, rimette quasi automaticamente in libertà il detenuto. Però non lo processa».
E che fa?
«A fronte di un numero sterminato di procedimenti, le sentenze arrivano, quando arrivano, a scoppio ritardato. Anni e anni dopo. La giustizia non colpisce in modo selettivo. Moltissimi faldoni finiscono in archivio, ogni tanto qualcuno viene pescato e condannato. Magari quando è una persona cambiata».
Comunque, a quel punto, dovrebbe stare in prigione.
««Sì, ma a quel punto entrano in gioco i benefici della legge Gozzini. E poi c’è l’indulto: di fatto, così com’è stato varato, senza le necessarie riforme di accompagnamento, è un regalo di tre anni».
Può fare un esempio?
«Semplice. Solo sommando l’indulto e la liberazione anticipata, che viene concessa quasi sempre, una pena di dieci anni si dimezza. Anzi, per essere fiscali, scende a 4 anni e mezzo».
Tutti fuori?
«Le misure previste dalla Gozzini sono un correttivo».
E che cosa dovrebbero correggere?
«Questo sistema che colpisce in modo random».
L’opinione pubblica è sconcertata.
«Purtroppo in Italia la pena è una formalità».
Liberi tutti?
«C’è il doppio binario: i mafiosi restano dentro, in linea generale, anche nella fase cautelare, li si processa in fretta».
E quando entrano in cella?
«C’è il 41 bis. Un regime particolarmente duro».
Gli altri?
«Il caso Franzoni insegna qualcosa sul piano generale».
Che cosa?
«La signora è entrata in carcere quasi sei anni e mezzo dopo i fatti. E subito sono cominciati i calcoli per stabilire quando uscirà. Le pare normale?»
Come rimediare?
«La Gozzini ha avuto anche effetti positivi: dà speranza ai detenuti virtuosi che non sono pochi; e poi è stata utilizzata in un sistema sovraffollato e arcaico come strumento "politico"».
Per scongiurare le rivolte?
«Esatto. In ogni caso il cambiamento deve iniziare dal processo.

Tre gradi di giudizio col rito accusatorio sono una follia. Il dibattimento deve arrivare subito. In questo senso, il decreto legge del governo che potenzia le direttissime, è un buon segnale. Ma, sia chiaro, da solo non basta».

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