Politica

Tre kamikaze «italiani» nell’Irak insanguinato

Un egiziano di 28 anni viveva in Sicilia e si guadagnava da vivere come giocatore di hockey su prato

Gian Marco Chiocci

da Roma

Una buona, macabra media: tre kamikaze sugli oltre 300 stranieri che in due anni hanno provocato morte, terrore e distruzione in Irak provengono dal nostro Paese. Vivevano, studiavano, pregavano qui da noi. Uno addirittura, un giovanotto egiziano di 28 anni che bazzicava la Sicilia, si divertiva e si guadagnava da vivere giocando a hockey su prato: era conosciuto con l’improbabile nome di Abu Farid Al Masri e a lui si addebita, per confessione di Said Mohamud Abdelaziz Haraz (braccio destro di Al Zarqawi nonché ispiratore della strage di Nassirya) l’attentato del 18 agosto 2003 alla sede delle Nazioni Unite a Bagdad che provocò due dozzine di cadaveri.
Sfogliando le statistiche aggiornate dalle varie agenzie di intelligence, dal giugno 2003 al giugno 2005 la cifra che più impressione è quella di 165 «martiri» (pari al 55% del totale) provenienti dall’Arabia Saudita, patria di Osama Bin Laden. A seguire 38 kamikaze risultano esser giunti in Irak dalla Siria, 16 dal Kuwait, 14 dalla Giordania, 11 dalla Libia. In Europa sono Italia e Francia a farla da padroni. Gran Bretagna, Spagna e Danimarca possono vantare un solo «residente» a testa fra i caduti con un cintura esplosiva o un’autobomba.
Quanto ai «nostri» kamikaze proprio dell’hockeysta egiziano si è riusciti a ricostruire la carriera sanguinaria attraverso un cd-rom prodotto e pubblicizzato dal gruppo guidato da Abu Musab al Zarqawi nella campagna mondiale di proselitismo per le nuove leve del terrorismo islamico. Fra una partita e l’altra, parlottando in moschea, si sente Abu Farid Al Masri esprimere ad alta voce il suo più segreto desiderio: «Ammazzare quanti più cristiani possibile».
Nel dossier dei Servizi c’è spazio per altre investigazioni sui kamikaze «made in Italy». Una pista arriva direttamente da Londra dove nel 2001 lo sceicco siriano Omar Muhammad Bakri, considerato il portavoce di Al Qaida in Gran Bretagna, rivelò che il Fronte Internazionale Islamico reclutava combattenti e aspiranti kamikaze in Italia, li mandava a far le ossa nei campi d’addestramento libanese della Bekaa, e da qui li smistava dove la Jihad sollecitava carne da macello. «L’arruolamento - raccontò Bakri - avviene nei centri di preghiera sparsi per l’Italia, dopodiché alcuni nostri uomini fornivano loro documenti falsi, quindi venivano affidati a Ramadan Shalla per l’addestramento-bomba». Altre indicazioni di intelligence ci riportano a un certo Jasmmal Imed, fermato in Tunisia, che ha raccontato di una quarantina di aspiranti candidati al martirio in qualche modo collegati alle filiere italiane dei vari gruppi salafiti «per la predicazione e il combattimento».
E ancora. La cellula milanese scoperta dalla Digos nel 2001 ha evidenziato come quattro madri di famiglia fossero in lista d’attesa per andare, su chiamata, all’altro mondo. Nel manuale di Al Qaida per gli «agenti in sonno» in Europa, scoperto a Kabul, si danno invece istruttive indicazioni su come passare da militante a martire. L’età media dei candidati varia dai 17 ai 25 anni. Tracce di questi baby-kamikaze portano fino al nord Italia.

Ma la dicitura «segretissimo» sul dossier impedisce di sapere dove e come studiano i nostrani scolari del terrore.

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