Enrico Lagattolla
MilanoAltro che infiltrazione mafiosa in Lombardia. La più colossale operazione mai condotta nel nord Italia contro il crimine organizzato costringe a buttare nel cestino anni di analisi e di certezze consolatorie. Perché quello che si scopre leggendo le centinaia di pagine degli ordini di cattura eseguiti ieri è che la ndrangheta - la più efficiente e tenace delle nostre mafie - in Lombardia non ha avuto alcun bisogno di infiltrarsi o camuffarsi. Perché gli uomini del clan sono stati accolti a braccia aperte, aiutati, riveriti, assunti, promossi, candidati in ogni ambito della società lombarda: nelleconomia, nella politica, nelle istituzioni. Porte aperte alla ndrangheta, nelloperosa terra di Lombardia.
Oltre trecento arresti in una botta sola, punto di approdo di due anni di lavoro di un esercito di investigatori della Dia e dei carabinieri, agli ordini delle Procure di Milano e Reggio Calabria. Una cosa così non si era mai vista. Una miriade di intercettazioni, telecamere piazzate fin dentro le case dei boss, le inevitabili fughe di notizie - a beneficio dei giornali, ma anche direttamente dei malviventi interessati - fino alla richiesta degli arresti, alla metà di maggio. In poco più di un mese, due giudici firmano gli ordini di custodia. E si arriva al blitz di ieri mattina, che fa il «botto», larresto in Calabria del padrino Domenico Oppedisano. Ma soprattutto scoperchia un mondo di relazioni talmente scoperte, esplicite ed arroganti da indurre a domandarsi come sia potuto accadere che solo ora vi si dato un taglio.
Ci sono gli uomini a pieno titolo complici dei clan, piazzati o reclutati in posti chiave: un direttore di Asl a Pavia, un assessore di centrodestra della stessa città, un ex assessore di centrosinistra alla provincia. Ma quello che lascia allibiti è laltro elenco, quelli degli uomini scesi a patti con malavitosi che portavano scritto in faccia il loro essere malavitosi, in cambio di affari e di voti. Cè il direttore sanitario del carcere di Monza, che fa favori ai detenuti del clan. Ci sono quattro carabinieri, vigili urbani, poliziotti, investigatori della Procura che lavorano per i clan. Cè il presidente del collegio sindacale della Fiera di Milano, gloriosa istituzione meneghina, che va a cena con i boss per presentar loro i candidati da votare. Cè un comune alle porte di Milano, Bollate, dove un consigliere comunale organizza una lista civica targata ndrangheta per far cadere la giunta. Cè un deputato del Pdl, Giancarlo Abelli, che riceve a sua insaputa i voti della ndrangheta, convogliati da amici tuttaltro che inconsapevoli. Cè uno dei cantieri più importanti di Milano, quello ai Citylife sulle vecchie Varesine, che spalanca le sue porte ai camion della banda. Cè il consigliere regionale Massimo Ponzoni, ex assessore, che riceve i boss calabresi nel suo ufficio, dove i tre calabresi arrivano in Porsche Cayenne: e Ponzoni viene marchiato nellordinanza come parte «del capitale sociale dellorganizzazione». Cè persino il nuovo edificio del Palazzo di giustizia, dirimpetto alla sede storica, che viene costruito anche da una impresa espressione dei clan. E poi i circoli Arci, i funzionari delle Finanze, le banche compiacenti, le aziende cannibalizzate, gli inevitabili appetiti sullExpo: e ovviamente non poteva mancare la massoneria, una misconosciuta loggia segreta dei Cavalieri di Cipro cui apparterrebbero parte degli arrestati.
Porte aperte alla ndrangheta, davvero. E fa impressione pensare che gli uomini che entrano senza fatica nelle stanze delle istituzioni lombarde sono gli stessi che le telecamere dei carabinieri immortalano come tanti scimuniti, il 31 ottobre scorso, allimpiedi con i bicchieri in mano, mentre brindano - nel circolo anziani «Falcone e Borsellino» di Paderno Dugnano- alla elezione del nuovo capofamiglia destinato a portare la legge della Locride anche sulle sponde dei Navigli. Gli uomini che portano cognomi pesanti, quelli della storia della ndrangheta: Barranca, Mandalari, Zappia.
Trecento arresti per ripulire il Nord dai clan
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