Politica

Tremonti commemora la strage ma gli ultrà preferiscono i fischi

Tremonti commemora la strage ma gli ultrà  preferiscono i fischi

Luca Telese

nostro inviato a Bologna

«Prende ora la parola...». Il nome, quel nome è ovviamente atteso: non fa in tempo nemmeno ad essere pronunciato, che già parte una scarica di fischi, la piazza silenziosa di un attimo prima, la folla che aveva ossservato un religioso minuto di silenzio per la commemorazione fino ai tre fischi di locomotiva, e che aveva applaudito con calore il sindaco Sergio Cofferati si trasforma improvvisamente in un catino infuocato. E quando lui, il vicepremier Giulio Tremonti appare visibile a tutta la piazza sul palco basso che ospita la cerimonia al fianco del sindaco e del presidente delle vittime (che restano impassibili, le facce come scolpite), l’onda della contestazione avvampa alta come la fiamma di un incendio: rabbiosa, continua, ininterrotta: «Vai a casa!», «Sta’ zitto!!», «Vattene». Tremonti parla del terrorismo di ieri e di oggi, tende un filo fra la Bologna del 1980 e Londra, Sharm El Sheik, dice: «Non è finito il terrorismo, si è trasformato, ma lancia sempre le stesse sfide ai valori di libertà e democrazia».
Ma la sua orazione viene interrotta di continuo. Sono minuti lenti, infiniti, elettricità statica. Ed è un inesorabile duello di nervi quello tra il vicepremier e i contestatori: una parte di persone abbandona la piazza sciamando verso i portici non appena vede la chioma del rappresentante del governo, un’altra rumoreggia, un’altra ancora ascolta il suo discorso, talvolta dissentendo platealmente da chi lo contesta. Lui, Tremonti, non si scomporrà nemmeno per un momento: preparato ai fischi, certo, ma anche capace di continuare a parlare - al contrario di uno dei suo predecessori, Rocco Buttiglione, che fu tacitato - fino alla fine. Parla come se nulla fosse. Non un’espressione del viso, non una increspatura nel tono di voce, non una pausa: una maschera di ghiaccio, lunga cinque minuti.
Non smetteranno di fischiarlo, infatti, fino a che non si allontanerà dal microfono. Non è la prima volta, certo. Era già successo a Pierferdinando Casini (nel 2001), a Buttiglione (nell’occasione che abbiamo ricordato, nel 2002), persino a Beppe Pisanu, (nel 2003) e al suo collega Pietro Lunardi (lo scorso anno). Una contestazione che per alcuni è al «berlusconiano di turno» venuto da Roma, per altri è a un governo che non acconsente alla richiesta dei familiari, quella di rimuovere il segreto istruttorio sulla Strage, che per altri ancora è dovuta all’accordo di maggioranza con i post-fascisti di An. La cosa che stupiva, ieri, era l’esasperazione dei toni. L’anno scorso Giorgio Guazzaloca fu fischiato da una parte della piazza, ma sopratutto da uno spezzone organizzato e militante, vicino ai cosiddetti «Disobbedienti». Quest’anno il malumore era più trasversale, diffuso, forse condizionato dalle polemiche degli ultimi giorni. Come se la città fosse spaccata in due come una mela: a fischiare erano sia vecchi che giovani, sia politicizzati che cani sciolti. E anche per questo i capannelli di discussione si sono accesi animatissimi, davanti alla Stazione, non appena il vicepremier è andato via. Il signor Vittorio, capelli bianchi, proprio al mio fianco, se l’è presa con un trentenne che aveva vicino, uno dei contestatori: «Ma non capisci che così fai il suo gioco? A me Tremonti non sta simpatico, e forse l’hanno mandato apposta, ma una città che ha mille anni di università sulle spalle ascolta e lascia parlare!». Una signora con gli occhiali, a fianco a lui: «Io ho cinquant’anni, e ho il diritto di fischiare chi voglio!». Un altro ragazzo, con la coda di capelli, Orione Lambri: «Questa contestazione è una vera coglionata: così domani tutti i giornali fanno il titolo sui fischi al vicepremier, e delle stragi non si ricorda più nessuno. A fischiare sono solo dei fessi». Poi, dopo una pausa: «Anche perché io mi chiedo: ma l’Ulivo non ha governato per cinque anni senza che nessuno lo abolisse, questo segreto? E allora?».
Già allora. Il fatto è che la metà di quelli che lo hanno fischiato, forse, in un altro contesto il discorso del vicepremier avrebbero potuto applaudirlo. «Hanno qualcosa in comune - ripeteva dal palco Tremonti - i morti delle stragi nazifasciste, quelli di Milano, di Brescia, della Sicilia, di Bologna, di New York di Madrid, di Sharm. Qualcosa unisce drammaticamente passato remoto, passato prossimo e presente: le vittime sono state sempre gente comune, non bersagli specifici, non simboli. Vittime casuali. La logica del terrorismo puro - aveva detto Tremonti - è razionale, proprio perché non è selettiva, è naturalmente quantitativa e indistinta. Ma sempre inutile». Un’analisi non molto dissimile da quella esposta solo pochi minuti prima, fra gli applausi da Sergio Cofferati. Ma ieri i fischi erano alle bandiere, e non certo alle parole. Che strano. Proprio nel giorno in cui Tremonti citava la Resistenza, proprio nel giorno in cui Tremonti, diceva: «Mentre le vite possono finire, la causa della libertà non finisce mai. Se si vive nella società civile».

Appunto.

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