Tremonti e la crisi: «Scongiurato il pericolo di un’apocalisse»

L’ammontare di pacchi e lettere. Così come l’andamento dei pedaggi autostradali, oppure il numero di container in arrivo e in partenza nei porti. Tutti indicatori non convenzionali sullo stato di salute dell’economia citati ieri da Giulio Tremonti per sottolineare come siano ormai evidenti i segnali che il crollo recessivo ha subìto un rallentamento.
C’è sempre prudenza, nelle parole del ministro dell’Economia. E non potrebbe essere altrimenti, vista l’imprevedibilità più volte manifestata da una crisi che ha costretto a ripetute figuracce i previsori internazionali più accreditati («Io però non faccio previsioni», mette le mani avanti Tremonti) e richiesto un prolungato sforzo finanziario da parte dei principali Paesi industrializzati. Sull’evoluzione della recessione si sono più volte interrogati gli economisti: è a L, in stile Giappone anni ’90? Forse a V, cioè con rilancio immediato? Magari a U, con recovery graduale? Sulla forma della ripresa, il ministro se la cava però con una battuta: «Quando il vettore si stabilizza e risale si chiama ripresa. Ma come si fa a dire che forma avrà? Potrebbe essere il profilo di una vasca Jacuzzi o di una vasca vittoriana».
Più salutare, dunque, leggere i primi germogli di ripresa dal flusso della corrispondenza postale, dalla stabilizzazione dei pedaggi autostradali e dal recupero dell’attività di import-export fisico nei porti italiani. Ciò detto, è ormai continuo il passaparola sulla perdita di intensità della Grande Recessione. Da Obama a Bernanke, da Trichet a Draghi, fino al numero uno del Fmi, Dominique Strauss-Kahn («La caduta libera dell’economia sta rallentando», ha detto ieri) sono arrivate parole di cauta speranza.
La stessa stagione delle trimestrali Usa sembrerebbe preludere a una più vicina primavera economica, così come l’arrampicarsi della fiducia dei consumatori americani, nel mese di aprile, fino alla quota precedente il crac Lehman (a 61,9 contro i 57,3 punti di marzo). Ma Wall Street qualche dubbio ancora ce l’ha: davvero gli ottimi risultati di Goldman Sachs, Wells Fargo e JP Morgan sono il segno che il peggio è dietro le spalle? Sono perplessità rese forse ancor più legittime dopo la trimestrale diffusa ieri da Citigroup. Il gruppo guidato da Vikram Pandit è tornato dopo due anni in utile per 1,6 miliardi di dollari, ma solo grazie a entrate pari a 2,5 miliardi garantite da una normativa anti-crisi, mentre le svalutazioni da asset tossici ammontano a 7,3 miliardi. «Prevediamo ancora perdite legate ai prestiti», ha ammesso il direttore finanziario, Ned Kelly. Non a caso, i titoli di Citi hanno accusato una perdita dell’8,98% e contribuito a mantenere la Borsa Usa sotto la linea di galleggiamento quasi per l’intera seduta (+0,07% il Dow Jones, +0,16% il Nasdaq), mentre quelle europee hanno archiviato la settimana ben intonate (Milano ha guadagnato l’1,96%).

Osservano gli esperti: solo la diffusione, il prossimo 4 maggio, dei risultati degli stress test dirà la verità sulla solidità del sistema finanziario statunitense. E se, davvero, si potrà cominciare a parlare di ripresa sostenibile.

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