Qualunque esito abbiano, gli scontri seguiti alle elezioni in Kenya, con i loro 250 e più morti, dimostrano ancora una volta quanto sia difficile esportare la democrazia nel Terzo mondo, sovrapponendo strutture nazionali di stampo occidentale a unancestrale realtà tribale. Nei primi 45 anni della sua indipendenza, il Paese è stato considerato un esempio di stabilità (anche se non di buona amministrazione) rispetto ai suoi vicini Etiopia, Somalia e Uganda, tutti lacerati da conflitti etnici e guerre civili. Questa stabilità era assicurata dalla tribù dei Kikuyu, protagonista della guerra per l'indipendenza, che nonostante costituisca solo il 22 per cento della popolazione occupava stabilmente i posti di potere e imponeva la sua supremazia ai numerosi altri gruppi. Quando questi ultimi, guidati dai Luo, si sono stancati di essere cittadini di serie B e hanno trovato in Raila Odinga un leader capace di mobilitarli, questi equilibri sono saltati: l'opposizione ha vinto due terzi dei seggi in Parlamento, mandando a casa buona parte dei ministri, ed era sul punto di spodestare anche il capo di Stato uscente, Mwai Kibaki, eletto trionfalmente cinque anni fa sulla base di un programma di lotta alla corruzione ma ormai screditato. A questo punto, i Kikuyu hanno reagito, e pur di mantenere al potere il garante dei loro privilegi sono ricorsi a brogli in grande stile nei conteggi che lo hanno portato a vincere di un soffio; e quando i seguaci di Odinga sono scesi in piazza per protestare, non hanno esitato a reprimere le dimostrazioni nel sangue, vietando ogni ulteriore manifestazione e spegnendo la Tv. Ma la risposta dei Luo è stata ancora più feroce: 50 persone bruciate vive in una chiesa ci riportano con la memoria ai massacri del Ruanda.
Che i risultati siano stati truccati sembra fuori di dubbio: abbiamo la circostanziata denuncia degli osservatori europei, sappiamo che a metà scrutinio Odinga era in testa di oltre un milione di voti, è documentato che in numerose roccheforti di Kibaki si è registrata unimprobabile partecipazione al voto del 96-97 per cento, ed è sotto gli occhi di tutti la incongrua differenza tra i risultati delle elezioni parlamentari e di quelle presidenziali. Ma il fatto da rilevare è che lo scontro avviene non lungo linee politiche e neppure sociali (anche se Odinga ha fatto breccia soprattutto nelle bidonville e nei più miserabili distretti rurali), ma essenzialmente tribali, come avrebbe potuto avvenire prima dell'era coloniale. È lo stesso fenomeno che ha caratterizzato le guerre civili in quasi tutto il continente, dall'Angola al Sudan, dalla Somalia al Congo, ma si sperava che il Kenya, in un certo senso un allievo modello, un Paese che collabora attivamente nella guerra al terrorismo islamista ed è diventato meta di un turismo d'élite, fosse uscito da questa spirale. Invece, ha riportato indietro l'orologio di mezzo secolo.
Vedremo ora se le intense pressioni dei Paesi occidentali convinceranno Kibaki e i suoi seguaci ad accettare un nuovo conteggio dei voti, o almeno a riconoscere un ruolo maggiore a Odinga, evitando lo scontro frontale. Gli strumenti non mancano, ma per ora le parti non si parlano neppure e l'orribile catena di morti ha rinfocolato odi secolari.
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