E Il Grinta ci è rimasto secco. Senza nemmeno il tempo di metter mano alla pistola. Steso senza appello nel duello con un re balbuziente (Colin Firth) e un logopedista fai da te (Geoffrey Rush). Stessa sorte anche per The Social Network che avrebbe voluto soffocare ogni avversario con la potenza della modernità e della rete. Molto meglio langoscia generata da un vecchio microfono e dalla sua spia rossa che lampeggia in faccia ai dubbi di un monarca. E adesso ci sarà molto da discutere sul come sia accaduto che un film tutto british abbia sbaraccato cotanta concorrenza, convincendo giurati a stelle e strisce, che di loro potrebbero essere propensi a scelte molto diverse, a regalargli i quattro oscar che contano.
Beh una risposta semplice potrebbe essere: William Shakespeare è sempre William Shakespeare. No, non siamo impazziti lo sappiamo che Giorgio VI non è lEnrico V. Però le quattro statuette de Il discorso del Re devono molto alla tradizione del Bardo. Tutti gli attori, a partire da Colin Firth, sono infatti passati dalla durissima scuola teatrale inglese e del Commonwealth (Geoffrey Rush) dove le opere del genio di Stratford sono il pane quotidiano. E non si tratta solo del fatto che il primo lavoro della protagonista femminile Helena Bonham Carter sia stato Giulietta recitata a 16 anni alla scuola di Westminster (una recita scolastica in certi istituti inglesi fa curriculum eccome). Tutta la vicenda del film è gestita con taglio shakespeariano. Cè un re che è un Amleto moderno che ha per tutto il tempo a che fare con linquietante ombra del padre. E nello scontro tra reali fratelli ci sono gli echi del Riccardo III. Ma il gioco va anche oltre al semplice modello e il teatro irrompe anche nei momenti più toccanti della narrazione con sublime ironia. Il Logopedista che salva il Re dalla sua balbuzie è un attore fallito, appena sale sul palco per recitare Shakespeare laudizione va malissimo (pronuncia troppo australiana).
Trionfa la tradizione «griffata» Shakespeare
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