La Turco «pianista» nel concerto da Camera

da Milano

Sono un’orchestra, solo che lei stona più degli altri. Perché lei, Livia Turco, è quella che solo dieci giorni fa chiamava alle armi contro il governo Berlusconi, reo, neanche a dirlo, della degenerazione delle istituzioni e naturalmente della società: «Chiedo coraggio, schiena dritta. Dobbiamo costruire un nuovo senso civico (...). Società, uguaglianza, rispetto: discutiamo di queste parole». E poi è bastato uno scatto di agenzia, lei che vota per due e sotto l’impietosa e inequivocabile didascalia: «Pianisti. Livia Turco».
Dev’esser che a Montecitorio, l’altro giorno sul Lodo Alfano, c’era la democrazia in pericolo e allora per difenderla valeva tutto, se Walter Veltroni è arrivato ad accusare il presidente della Camera Gianfranco Fini di aver «avallato l’esproprio delle funzioni del Parlamento». In Aula, il Pd è arrivato già logorato da mesi di vorrei protestare ma non posso, dialogo ma anche no e via così dando testate nei muri. L’antivigilia del voto, poi, i democratici erano finiti all’angolo non una, ma tre volte. Prima il «No Cav day» trasformato in un «No Walter day», Veltroni ad annunciare la fine di un amore con Di Pietro, il centrodestra ma pure un bel pezzo di Pd a gongolare: così impari ad allearti con l’Idv. Poi il Quirinale: «Napolitano firmerà il lodo» titolava il Corriere della Sera nel giorno del voto in Aula, spiegando che, semplicemente, il Colle non considera anticostituzionale il provvedimento, con buona pace del Pd che proprio sull’incostituzionalità aveva improntato la sua battaglia. Infine la batosta del voto: 309 sì, 236 no, i 30 deputati dell’Udc astenuti.
Così, presa col grandangolo, l’aula di Montecitorio pareva una copertina di Alessandro Baricco, la Leggenda del pianista in Transatlantico. Francesco Biava stava addirittura in piedi, sguardo rapito e corpo proteso che nemmeno Elton John quando saltava sui tasti. Gabriele Cimadoro aveva più l’aria di un Giovanni Allevi, tipo: non me lo aspettavo di essere qui. Ma veder «suonare» Livia Turco con lo stile classico di un Maurizio Pollini sa di stecca da annali. Perché da una vecchia comunista come lei non te lo aspetti. Vabbé, vecchia, Livia Turco ha 53 anni. E però politicamente sì, ché la prima volta in Parlamento ci entrò nel 1987, a Berlino c’era ancora il Muro. E che scuola, la sua: Partito comunista, regola e disciplina, prima dirigente della Federazione giovanile, poi consigliere comunale e regionale, responsabile delle donne, infine ministro con Prodi, con D’Alema e di nuovo con Prodi.
C’è poi che lei è quella che da sempre impartisce lezioni senza mezze misure. Quando imperversava la polemica sulla legge 194, capo dei contestatori un peso massimo come Giuliano Ferrara, lei non cedette di un millimetro e con i cattolici del Pd fu ferrea: «Basta caccia alle streghe. Il Pd deve essere inequivoco sulla difesa della legge». Quando due ragazzi gay furono denunciati per atti osceni al Colosseo, lei, prima di prendersi la briga di capire cosa fosse successo, fu perentoria: «Le forze dell’ordine chiedano scusa». E via così, sempre nella mischia a testa bassa a distribuire cornate. E, insomma, vedi quel grugno perennemente accigliato e pensi che lei no, non sgarrerà costi quel che costi.
E invece. Precisa e rigorosa come solo i piemontesi, giacchina rosa su top nero, austero occhialino inforcato sul naso, ha votato per conto di una collega assente. Allora, per capire, forse bisogna andare a quell’aneddoto che lei stessa raccontò dopo aver raddoppiato, da ministro della Salute, il quantitativo di cannabis per uso personale.

Il decreto s’incagliò al Tar del Lazio, che lo bocciò perché, fra l’altro, «la scelta effettuata non risulta supportata da alcuna istruttoria tecnica che giustifichi il raddoppio del parametro». Ma agli atti restò la conversazione del ministro con il figlio adolescente che le chiedeva lumi: «Non è giusto finire in carcere per uno spinello, ma se te lo fai tu ti riempio di botte».

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