Politica

Tutte le scalate (fallite) del torinese che voleva prendersi la Fiat

«Così adesso avrà ancora più tempo da passare in barca». No, Carlo De Benedetti non si può liquidare con una battutina velenosetta, raccolta in Piazza Affari giusto pochi minuti dopo la sua abdicazione. Non gli renderemmo giustizia. Anche se la giustizia, quella delle aule di Tribunale, si è occupata più volte dei suoi affari pubblici e privati. Non solo quelli transitati in Borsa. L'Ingegnere per eccellenza, giusto per fare concorrenza fin dai primi titoli sui giornali, all'Avvocato per eccellenza, ora che ha deciso di mollare l'ancora e salpare verso nuovi orizzonti, popolati magari di palme e non più di cda, avrà tutto il tempo per rivedere alla moviola il film della sua vita. Una vita dalle enormi ambizioni ma anche dai molteplici scivoloni, sui pioli delle sue tante scale. O scalate. Rivediamolo dunque assieme il film della sua vita.
Cominciando dalla Fiat, dove nel 1976, grazie all'amicizia di Umberto Agnelli, suo vecchio compagno di scuola torinese come lui, conquista la carica di amministratore delegato. Gli porta come pacchetto regalo il 60% del capitale della Giardini (una sua società metalmeccanica quotata in Borsa) ma gli chiede in cambio una piccola quota (il 5%) della Fiat medesima. E della serie: mai fidarsi degli amici, De Benedetti comincia subito a nominare manager a lui fedeli come il fratello Franco. Fatto sta che dopo solo quattro mesi litiga con un tizio di nome Cesare Romiti e molla la Fiat. «Divergenze strategiche» qualcuno le definisce all'epoca. La verità è che la storica dirigenza Fiat, legata alla famiglia Agnelli, smaschera un tentativo suo e del fratello di scalare la società con l'appoggio di gruppi finanziari elvetici. L'Ingegnere giura eterna vendetta e, nel frattempo, con la vendita delle sue azioni Fiat, rileva le «Compagnie industriali riunite» (Cir), e, tramite loro si lancia nell'editoria, garantendosi il controllo azionario del quotidiano la Repubblica e del settimanale L'Espresso. Il 1978 segna per Carlo De Benedetti un altro giro di boa: entra infatti in Olivetti e ne diviene presidente. Il nuovo management punta sul rilancio con i pc e i vari accessori d'informatica e si toglie pure lo sfizio nel 1984 d'inglobare l'inglese Acorn Computers. Olivetti e De Benedetti saranno due cuori e una capanna per lunghi anni. Ma dietro ci sarà sempre un terzo cuore: quello di Roberto Colaninno. Fra lui e De Benedetti è idillio a prima vista. Nel salvataggio dell'Olivetti Colaninno entra come ultima carta, costretto a fare un passo indietro sotto il peso di conti sempre più pesanti e delle promesse non mantenute. Tocca a Colaninno vendere, chiudere e licenziare. De Benedetti si fida così sempre più di questo suo uomo emergente, affidandogli incarichi di responsabilità. (Nel 1996 si registra persino una sua pubblica attestazione di stima: «Il merito del successo di Sogefi, piccola multinazionale italiana, di cui mi onoro essere il presidente, va solo a Roberto Colaninno e all'intero team dei dipendenti»). Non immagina certo che un giorno sarà proprio Colaninno a sostituirlo prima come ad e poi come principale azionista in Olivetti. E non immagina neanche la grande operazione Telecom concepita da Colaninno che segnerà la fine del loro grande idillio. Ma l'Ingegnere non ha mai smesso di coltivare sogni di grandezza. Spaziando dalla finanza, alla politica. Come quando, irresistibilmente attratto da un banchiere noto quanto controverso, Roberto Calvi, siamo agli inizi degli anni Ottanta, acquista il 2% del capitale del Banco Ambrosiano e ne diventa vicepresidente. Va e viene da via Clerici a Milano, fiuta l'aria e dopo solo due mesi lascia il Banco e cede la sua quota.
L'Ingegnere insiste nel voler volare alto e portando i cioccolatini in casa di chi li produce da generazioni si presenta sulla Grand Place di Bruxelles per, almeno così dicono i titoli di certi giornali del 1987 «comprare un terzo del Belgio». È l'inizio della sua fallimentare scalata alla Sgb, la Société Générale de Belgique. «Il più grosso e penoso errore dal punto di vista patrimoniale» come ha riconosciuto egli stesso ieri nell'incontro coi giornalisti. Nel 2005 fonda la società di investimenti Management& Capitali (M&C) nella cui orbita rientra Tiscali. Insomma nonostante Telecom e Omnitel l'Ingegnere resta convinto che il telefono può allungare la vita. Anche se Tiscali, è storia di ieri, precipita in Borsa.

Come dire? Perso il tocco d'oro ora è meglio prendere il largo.

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