Tutti contro i kamikaze islamici tranne Siria, Libano e Algeria

Nella ricerca di un’unanime condanna del terrorismo impasse tra la Ue e alcuni paesi arabi

Fabrizio de Feo

nostro inviato a Barcellona

Non è facile riannodare i fili della partnership euromediterranea, a dieci anni dall’avvio del faticoso processo di avvicinamento tra le due sponde del «mare nostrum». I rapporti tra l'Unione Europea e i Paesi arabi, infatti, continuano a incagliarsi sulle barriere della diffidenza e delle «reticenze semantiche», soprattutto quando si nomina la parola terrorismo e si cerca di definirne «l’identità» in modo da disegnare una strategia di lotta comune.
Avviene così che, nel momento in cui viene reso noto che nel corso del grande summit della città catalana verrà sottoposto all’attenzione di tutti un «Codice di condotta contro il terrorismo» per l’isolamento morale di tutti gli attentatori, alcuni paesi arabi, la Siria in primo luogo ma anche il Libano, l'Algeria e molti altri, decidano di sfilarsi, inviando invece dei capi di Stato o di governo rappresentanze ministeriali di più basso profilo. La disputa dialettica si gioca tutta sulla differenza tra i terroristi e gli attivisti che commettono atti «di legittima difesa per la liberazione nazionale contro una forza occupante». Una definizione ampia in cui possono ricadere, a seconda delle letture, gli Hezbollah, le fazioni palestinesi o anche i «resistenti» iracheni. La speranza di individuare una formula gradita a entrambe le parti resta, comunque, viva. Per questo Tony Blair, come presidente di turno dell'Unione Europea, nella conferenza di presentazione del vertice professa ottimismo a piene mani. Minimizza l’impasse e dice a chiare lettere che il «terrorismo è un ostacolo alla pace in Medio Oriente e per questo va affrontato senza reticenze». Una tesi che il palestinese Abu Mazen accanto a lui sposa con convinzione, ricordando il suo impegno contro il cancro del terzo Millennio.
I 35 Paesi della partnership euromediterranea naturalmente non si limitano a galleggiare nelle acque increspate delle questioni di principio ma guardano anche ad altre «issues». Su tutte la ricerca degli strumenti con cui attutire le differenze economiche che dividono la sponda sud del Mediterraneo dall'Europa. La trattativa si concentra sull'avvio della zona di libero scambio di beni e servizi a partire dal 2010. Ma anche sulla delicata questione degli aiuti allo sviluppo. L’Ue nel 2005 ha destinato attraverso la Commissione europea aiuti per complessivi 850 milioni di euro ai Paesi che hanno aderito al Processo di Barcellona dieci anni fa. Ma altri 2000 milioni sono arrivati sotto forma di prestiti, soprattutto agli Stati dell'area nord-africana. La maggior parte dei fondi sono stati destinati al finanziamento di progetti idrici, ai trasporti, ma anche al rafforzamento del settore privato. Crediti passati principalmente attraverso la Bei, la Banca europea degli investimenti. Ora alcuni partner del foro euromediterraneo spingono per un salto di qualità e puntano alla creazione di un vero e proprio Banco euromediterraneo, antico progetto rimasto sempre in cantiere ma mai realizzato. L'Italia stessa, con Silvio Berlusconi, è favorevole a percorrere questa strada e qualcuno già suggerisce Milano o Palermo come possibili sedi della nuova istituzione finanziaria, tutta volta a promuovere investimenti nell'area e una maggiore condivisione della prosperità. Le motivazioni per percorrere una strada di questo tipo non mancano.

Le distanze economiche tra la costa sud e quella nord del Mediterraneo, infatti, non solo non sono diminuite ma si sono ampliate negli ultimi dieci anni, con il Pil pro-capite dei 15 Paesi Ue attestato attorno ai 30mila dollari contro i 5mila della costa meridionale. Un gap da limare per mettere un freno alle grandi migrazioni e alla tentazione, sempre in agguato, del fondamentalismo islamico.

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