Era il 24 giugno del 1978. Un sabato. Il Giornale si era appena trasferito dalla vecchia sede di Piazza Cavour, dov’era nato quattro anni prima, alla nuova, e attuale, di via Negri. Ma i segni del trasloco erano ancora ben visibili. Per dirne una, c’era un unico televisore in tutta la redazione, collocato, ovviamente, nella stanza di Montanelli. Quel giorno, alle tre del pomeriggio, si giocava Italia-Brasile, finale per il terzo posto dei Mondiali di calcio in Argentina. L’andirivieni dal direttore già verso le due e mezzo era diventato una processione. Tutti andavano da lui con i pretesti più strani, i meno coraggiosi stringendo in mano un’agenzia fresca di telescrivente.
A farla breve, alle tre meno cinque la stanza era zeppa di questuanti, ormai a corto di scuse valide. Montanelli, grandissimo appassionato di calcio, gli occhi fissi sulla tv, faceva finta di non vedere la folla di giornalisti, fattorini, segretari e autisti assiepata alle sue spalle. Il tifo è tifo, quindi ogni azione dell’Italia era punteggiata dagli «oh», sempre meno trattenuti, di noi tifosi. Finché, al 18’ del primo tempo, Causio portò in vantaggio l’Italia. Un gol accompagnato da un urlo collettivo da squarciare i muri.
Fu in quel momento che la porta a vetri della stanza accanto si aprì e si affacciò Enzo Bettiza: «Che succede?», chiese con l’espressione più stupita, tappando a tutti la bocca ancora spalancata. Figurarsi, lui che non aveva mai visto una partita di calcio, né tantomeno sapeva che ci fossero i Mondiali.
Montanelli lo guardò con aria di compatimento, poi scoppiò in una risata così fragorosa che la sento rimbombare ancora oggi. Alla fine l’Italia perse 2-1 e Bettiza non ebbe più motivo di riaprire la porta.
Massimo Bertarelli, allora redattore
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