Ci voleva un Principe per nobilitare una partita, una coppa e il «Primu titulu», che nella storia è la sesta coppa Italia dell’Inter. Per fortuna che c’era Milito, eppoi Eto’o e anche Julio Cesar. E potremo mai dimenticare Zanetti? Parliamo del bello, per dimenticare il brutto di una finale giocata tra nervi e tensioni, qualche bruttura calcistica e una serie di colpi proibiti da mandare tutti a quel paese. E chissà cosa avrà pensato Lippi, ct con la voglia impura di portarsi Totti al mondiale? Fallacci da giocatore della giungla, nervi persi, una reputazione buttata quando ha scalciato Milito, e poi Balotelli che avrà tanti difetti, ma andrebbe almeno rispettato nell’incolumità fisica.
Ma siamo in questo Paese dove il calcio è sempre guerra di confine, trincea senza limite ai colpi bassi. Se la partita è stata dignitosa, il finale ha capovolto il quadro quando qualcuno ha cercato di picchiarsi a fine partita e qualche tifoso invasato ha provato a farsi giustizia.
La coppa Italia va all’Inter style, che ormai è un modo di giocare e pensare gioco, un modo di essere squadra e di credere nel sacrificio prima di tutto. Non è calcio scintillante, anzi talvolta rude, ma terribilmente efficace. Perde il desolante italian style di Totti, ma anche quello più raffinato(e non vincente) di Claudio Ranieri. Una volta di più tecnico e squadra sono stati perdenti di successo, il refrain di tutta una stagione.
Il gol di Milito, la grandezza di questo attaccante che solo la follia di un calcio distratto ha tenuto lontano da grandi squadre, ha incorniciato la storia della partita: da solo contro tre, prima di lasciar partire il colpo del fuoriclasse, uno straordinario siluro che l’Olimpico deve aver sentito come un rintocco sinistro. La Roma non ha mai trovato un passo diverso da quello della sparring partner, forse irretita dalla straordinaria attenzione dell’Inter nella fase difensiva. Aggiungiamoci alcuni interventi decisivi di Julio Cesar e quello scoprire Eto’o sempre più terzino, con il piacere di correre come un ragazzino a inseguire palloni e avversari.
E noi stiamo a discutere quanto vale il nostro calcio? Facciamo un po’ di conti: le scenate di Materazzi, e i soliti falli impuniti di Samuel, le mani svelte di Mexes, Mourinho che va subito fuori di testa (e poi continuerà a ogni minima occasione) quando sente accennare l’inno della Roma e capisce che siamo un paese neppure capace di rispettare un minimo di ufficialità (questa era finale di coppa Italia, non un Roma-Inter qualsiasi), il raggio laser che rispunta dalle tribune, botte alle gambe prima che calci al pallone.
Burdisso è un ex interista, ma ha fatto ben intuire di non aver voglia alcuna di tornare in quello spogliatoio: ha messo subito fuori uso Sneijder, poi ci ha provato con Balotelli. Partita da attenzione all’ordine pubblico, ma in campo. Se cercavamo uno sfogo alle nostre frenesie di massa, alla voglia di menare più che di giocare, agli isterismi collettivi. Bene siamo stati serviti. Se cercavamo calcio, un po’ meno. Ranieri ha negato subito uno dei pezzi pregiati della compagnia: Totti in panca e Toni al centro dell’attacco è stata mossa strategica e non tragica. Faccia del capitano a parte che, poi, ha dimostrato di avere i piedi, ma non aver più la testa. Nelle grandi partite ha troppi problemi di tensione.
Mourinho ha goduto poco dell’ennesima trovata scaramantica. Aveva detto che Sneijder non sarebbe stato in campo? Ed, invece, lo ha presentato come in tutte le occasioni in cui la pretattica sull’olandese ha fruttato successi. Peccato che, dopo due minuti, l’abbia perso per uno strano incrocio con Burdisso. Sulla gamba di Sneijder è rimasto un segno blu, ma forse ha scricchiolato pure il suo muscolo. Peccato, anche se Mou ne ha approfittato per parlare a tutti, senza dire niente: in campo Balotelli e ora giudicate voi. E SuperMario si è assestato sulla sinistra e, di tanto in tanto, ha tirato fuori il cannone. Ha giocato tra stravaganza e voglia di esser d’aiuto, s’è fatto prendere da qualche smania, ma ha dimostrato di essere un punto di riferimento quando la squadra ha bisogno di metter paura.
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