Michele Anselmi
da Roma
Tutti da Borat venerdì pomeriggio. Complice il tam-tam del Foglio, che ci ha fatto sopra una schidionata di pezzi più un inserto di quattro pagine distribuito gratis, il finto documentario kazako del vero comico inglese Sacha Baron Cohen ha risvegliato un po0la Festa. Ma fu vera gloria? A occhio, no. Alla fine degli 85 minuti, molto politically uncorrect, un senso di palpabile delusione ha percorso la platea della Sala Petrassi. Applausi mosci, poco convinti, per quello che doveva essere «un film da sganasciarsi» (ancora Il Foglio), cioè così spassoso da «riportare le ambulanze fuori dal cinema». In ogni caso, alluscita dal film, i giudizi oscillavano tra questi due estremi: «Una puttanata tremenda», sbuffava Paolo Mereghetti del «Corriere»; «Mai riso così tanto negli ultimi anni, un capolavoro se solo fosse durato 50 minuti», azzardava Marco Giusti, teorico dello Stracult. Squisitamente «stracult», in effetti, è limmagine-clou del film che mostra Cohen nei panni discinti del suo Borat Sagdiyev, immaginario telegiornalista kazako spedito negli Usa per un servizio sullamerican way of life. Calzini grigi, scarpe «sovietiche», baffoni, occhiali Ray-Ban, tanti peli, soprattutto una specie di sospensorio verde pisello, con bretellone, a forma di tanga sul didietro. «Un indumento da spiaggia di dubbia provenienza e incerta denominazione», scrive lentusiasta Mariarosa Mancuso, informandoci dottamente che gli americani lo chiamano «crotch sling».
Borat è una delle macchiette inventate per Mtv dal trentacinquenne Cohen, diciamo un alter-ego buffo-cattivista, al pari del rapper Ali G. che tanto piaceva alla compianta Regina Madre. Un po come accadde coi Blues Brothers, è diventato un film, distribuito dalla potente 20th Century Fox, che ha annusato laffare. Già perché nel giro di qualche mese, tra copertine a ripetizione e utili proteste diplomatiche (il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbayev, lha presa male), «Borat the movie» è diventato il film di cui tutti parlano, un gioco alla moda, impertinente e sulfureo, il cui senso è racchiuso nel sottotitolo beffardo «Studio culturale sullAmerica a beneficio della gloriosa nazione del Kazakistan».
E dunque ecco Borat, che dal suo villaggio natale in mezzo alle montagne si ritrova nel fulgore della Grande Mela. Luomo è un impagabile selvaggio in stile film di Kusturica cresciuto secondo la gerarchia kazaka «Dio, uomo, cavallo, cane, donna, topo»: quindi detesta ebrei, zingari e gay, è pacificamente dedito allo stupro, ritiene che le femmine abbiano un cervello da scoiattolo e che a 18 anni le mogli siano già vecchie. Figuratevi limpatto con lAmerica. Col suo buffo inglese (mica facile doppiarlo in italiano), il reporter offende femministe teoriche della differenza e lady sudiste chiamate a insegnargli le buone maniere. Si sciacqua nel water, conserva la cacca in un sacchetto di plastica, si masturba davanti alla vetrina di Victorias Secret, a un rodeo intona linno americano in chiave kazaka, si augura che «Bush possa bere il sangue di ogni donna, uomo o bambino dellIrak», cade in trance a un raduno di Pentecostali e a chi gli chiede perché non prende laereo risponde: «Non volo, nel caso gli ebrei ripetano lattacco dell11 Settembre». Insomma, avete capito. Il suo sogno è sposare, anzi rapire chiudendola in un sacco secondo lusanza kazaka, Pamela Anderson di Baywatch, vista in tv: così se ne parte per Los Angeles, a cavallo di un furgoncino da gelataio. Lincontro con la biondona siliconata non sarà dei migliori, sicché si consolerà, una volta tornato al villaggio, con la grassa e buona prostituta negra conosciuta durante il viaggio.
Naturalmente non bisogna prendere troppo sul serio il «messaggio» sovversivo di Borat. Nel senso che il film, girato alla maniera di un «mockumentary», cioè di un documentario farsesco, spinge loltraggio e la freddura ben oltre il politicamente corretto, nella spasmodica ricerca dello scandalo. Era meglio Tutti pazzi per Mary.
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