Tutti pendono dalle labbra di Frate Capestro

«Il brigante» di Marco Vichi è una solida costruzione narrativa tutta basata sull’incastro di storie diverse

Sarebbe bello leggere il Decamerone in una villa di campagna, le Mille e una notte nel palazzo del Sultano e Il brigante di Marco Vichi (Guanda, pagg. 161, euro 13,50) davanti ad un caminetto acceso, con un bicchiere di vino tra le mani e un sigaro tra le labbra; se poi scoppiasse un temporale, e il focolare ardesse in una locanda al centro di una foresta dove la bufera abbia consigliato di riparare, tanto meglio. Purtroppo la macchina del tempo non è stata ancora inventata e non si può sperare di ritrovarsi tra il Regno di Piemonte e il Granducato di Toscana all’inizio dell’Ottocento, all’epoca dei moti carbonari.
Di certo carbonaro non è, l’uomo che giace immobile su una panca voltando le spalle agli altri avventori, solo di un soffio più raccomandabili; lo chiamano Frate Capestro ed è il brigante più braccato del Granducato. Pare che Pietro Leopoldo, l’illuminato regnante lettore di Beccaria, mentre si allestiva il patibolo che avrebbe dovuto ucciderlo abbia sussurrato «Questo è l’ultimo, poi basta». Quando il brigante però riesce a fuggire, dà mano libera agli sgherri perché lo acciuffino e lo giustizino, anche se in segreto. Viva i Lumi della ragione, insomma, purché evangelicamente non pretendano di illuminare le tenebre e men che meno i cuori di tenebra. La locanda è l’unico angusto luogo in cui Frate Capestro gode di una franchigia garantitagli da un salvacondotto frutto della riconoscenza di un nobile cui il brigante salvò il figlio.
Dopo un po’, l’oste si fa pagare in anticipo e va a dormire lasciando candele, zolfanelli e una scorta di vino. Mentre i tuoni scuotono la locanda gli avventori, sia perché il vino scioglie la lingua sia per scacciare il terrore che dà loro l’essere accanto ad un feroce assassino, cominciano a raccontare la loro vita. Sono un uomo dalla pelle tesa ma che forse tanto giovane non è; un tipo dalle dita mozze grosso come un armadio; e un vecchio canuto con le guance scavate dal vaiolo. Apre il giro dita mozze, narrando le vicende seguite ad una terribile maledizione, lanciata in conseguenza di una passione proibita. Poi tocca al vecchio: «L’avete messa sull’amore, e allora andiamo avanti su questa strada». Nina, una ragazza che credeva destinatagli, un giorno si innamora di «un biondastro con la faccia da giullare longobardo. E come se non bastasse aveva uno sguardo inquieto, teso, a metà fra il cervo inseguito e il lupo che lo rincorre. Insomma lo sguardo che hanno certi studiosi perseguitati dai dubbi, e che tanto piace alle femmine». L’ultimo a prendere la parola è il giovane. Nato contadino, per aver raccolto un oggetto volato dalla carrozza di un marchese è assunto come lacchè. Il nobile che lo ha preso sotto la sua protezione non è un aguzzino, ma le conversazioni con un mendicante zoppo (in realtà si tratta di un sanguinario giacobino) convincono il ragazzo a darsi alla macchia e a raggiungere una banda di spietati giustizieri.
Ispirato al racconto classico di briganti e alla fiaba popolare, Marco Vichi ha composto un racconto generoso e godibilissimo che è pura affabulazione.

Niente se non la sostanza del narrare: Il brigante è una costruzione solida tutta ad incastri che sta su senza colla e senza chiodi. Perfetta, per convincersi che la linea di confine tra il bene e il male non divide il romanzo dal racconto di genere, ma lo scrittore onesto dalle sue dopate controfigure.

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