
Io non voglio vivere per sempre, voglio solo non marcire, non dovermi preoccupare che il cuore decida da un giorno all’altro di fermarsi, che il fegato collassi, che la pelle si spacchi e diventi un guscio inguardabile. Intendiamoci: fosse per me stesso, il problema sono le persone che amo, coloro che non sono ancora morti, coloro per cui vivo. Vorrei che loro non dovessero affrontare tutto questo, vorrei che ci fosse la possibilità di trasferirsi altrove, dentro un corpo che funzioni per sempre, e così con loro vorrei vivere per sempre.
Perché sto dicendo questo? Perché sto guardando Alien: Pianeta Terra su Disney+, e qui la vera attrazione, o meglio ciò che mi ha colpito di più, non è lo xenomorfo (è sempre lui, sebbene accompagnato da un gruppetto di altre specie nuove e terrificanti), piuttosto gli ibridi, i cosiddetti “bimbi sperduti”, ragazzi che hanno avuto una seconda possibilità, la loro coscienza umana trapiantata in un corpo sintetico grazie al Progetto Prodigy.
Insomma, lo xenomorfo è quasi decorativo, un animale feroce tra tanti, mentre il vero centro sono loro: gli umani che non sono più umani del tutto. I “bimbi sperduti” conservano ricordi, caratteri, fragilità, la propria identità e memoria, solo che vivono dentro un guscio che non si ammala e non invecchia. (Ci sono altre varianti: i sintetici militari, creati per combattere e obbedire, che cominciano a desiderare un pensiero proprio; gli ibridi civili, pensati per integrarsi e sostituirci nella vita di tutti i giorni; e i mostri da laboratorio, corpi robotici con coscienze multiple innestate).
La parte profonda della serie (realizzata molto molto bene, e no, non dovete aver visto per forza i film di Alien, se però non li avete visti male) non è nello spazio profondo, è nell’idea che la carne sia un software difettoso e la vera evoluzione sarebbe trasferire noi stessi su un supporto nuovo, esente da malattie, rughe, colesterolo e visite mediche.
Eppure il paradosso è che di questi tempi, tra AI, progressi della biologia e della robotica, possiamo pensare che ci arriveremo. Temo però non noi. Ci arriveranno gli altri. Noi siamo vivi ancora troppo presto. Ogni settimana leggiamo di organi stampati in 3D, protesi sensibili, interfacce neurali che registrano ricordi e ogni mese salta fuori un paper che promette l’impossibile, e intanto il tempo scorre.
Magari i nostri nipoti si caricheranno come file spostati da un vecchio hard disk a uno nuovo e noi resteremo i beta tester della carne, la generazione che ha intravisto il salto e non ha potuto farlo, troppo presto.
Alien: Pianeta Terra è riuscito a fare un Alien senza che si senta la mancanza di Ripley, ma ci costringe a pensare molto di più alla nostra mortalità terrificante. Inoltre l’ambientazione, con le luci fredde, la pioggia costante, i grattacieli metallici e le ombre che divorano i volti mi ricordano molto Blade Runner. E dentro di sento l’eco della voce di Roy Batty, il replicante che voleva solo sapere quando sarebbe morto, e sotto la pioggia dice: «Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginare. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione.
E ho visto i raggi C balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo, come lacrime nella pioggia. È tempo di morire.» Cari scienziati, sbrigatevi, io sono pronto a trasferire la mia coscienza anche in una lavatrice.