La Ue contro i «paradisi asiatici»

Bruxelles vuole estendere a Hong Kong, Singapore e Macao le norme antievasione

Laura Verlicchi

da Milano

Bruxelles all’attacco dei paradisi fiscali asiatici. Hong Kong, Singapore e Macao sono i Paesi chiave con cui la commissione europea vuole avviare negoziati per contrastare l’evasione fiscale sugli interessi da risparmio degli europei non residenti. L’obiettivo - come ha confermato la portavoce del commissario agli affari fiscali Laszlo Kovacs - è di concordare con questi Paesi l’introduzione di «misure equivalenti» allo scambio automatico di informazioni sulla falsariga di quanto già stabilito dall’Unione Europea con i cosiddetti Paesi terzi, come Svizzera, Liechtenstein e principato di Monaco. Proprio per verificare la disponibilità dei governi in questa direzione, ieri si sono riuniti gli esperti fiscali dei Venticinque.
La decisione di Bruxelles nasce dalla delusione per i risultati della direttiva approvata un anno fa, che doveva segnare la fine del segreto bancario, attraverso lo scambio automatico di informazioni tra gli stati membri sugli interessi pagati a clienti privati, residenti in un Paese diverso da quello in cui hanno il conto in banca. In alternativa, in alcuni Stati, tra cui i Paesi terzi, si paga una ritenuta alla fonte, che però nella seconda metà del 2005 ha fornito meno di 180 milioni, molto al di sotto delle stime. In realtà, molti europei hanno dirottato i fondi verso la più vantaggiosa Asia, dove il segreto resiste e non si paga la ritenuta: a fine settembre 2005 i depositi di cittadini non residenti raggiungevano solo a Singapore 158,1 miliardi di dollari (circa 130 miliardi di euro).
«Sono spesso le stesse banche degli ex paradisi fiscali europei - spiega Stefano Marchese, vicepresidente della Federazione europea commercialisti - a dirottare i clienti verso le loro filiali asiatiche. D’altra parte, la direttiva riguarda solo le persone fisiche: basta costituire una società di comodo per eluderla.

L’esigenza di allargare le norme oltreoceano a questo punto è un problema politico: le strade possibili per convincere i Paesi asiatici ad accettarle saranno probabilmente il bastone e la carota, ovvero la minaccia di dazi e la promessa di vantaggi societari».

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