Ci sono tre modi per conoscere larte moderna. Il primo è leggere dei libri in proposito, ma in Italia i libri spiegano poco, e in quel poco cè disgraziatamente molto di sbagliato. Il secondo è guardare le opere, ma larte contemporanea è ermetica, e di solito non ha contenuti evidenti perché, diamine, ciò che le interessa è la forma. Il terzo è conoscere gli artisti, ma non è così semplice.
Se però gli artisti sono ritratti da un grande fotografo, e le fotografie ti vengono incontro in una mostra, ben ordinate per epoche, eventi, soggetti, allora vale la pena di tentare. «Ugo Mulas. La scena dellarte», limponente rassegna curata da Nino Castagnoli, Lucia Matino e Anna Mattiroli al MaXXI di Roma e al Pac di Milano (poi, nel giugno 2008, itinerante alla Gam di Torino, catalogo Electa) è appunto questo: una storia dellarte per immagini, anzi per artisti e, ogni tanto, per opere.
Nato a Pozzolengo (Brescia) nel 1928 e scomparso a Milano a soli quarantacinque anni, Mulas è stato un maestro della fotografia contemporanea. Di scatti e inquadrature comincia a occuparsi agli inizi degli anni 50 quando, abbandonati gli studi di giurisprudenza, si iscrive ai corsi serali di Brera. Qualcuno gli mette in mano una vecchia macchina, gli dice qualcosa di incomprensibile sullesposimetro e lui comincia così, arrangiandosi da autodidatta. Nella sua ricerca passa dalliniziale realismo al concettualismo degli ultimi anni, quando nel 71-72 crea le Verifiche: una serie di scatti in cui fotografa la fotografia stessa, ritraendosi al lavoro o indagando la tecnica narrativa della camera.
Le sue opere più famose, però, sono dedicate al mondo dellarte. Le prime nascono nel 53-54 quando Mulas, prima di recarsi a Brera, passa i pomeriggi al Giamaica, unosteria nei dintorni dellaccademia. Qui incontra Piero Manzoni e tanti altri artisti, tutti lì a discutere, con la sigaretta accesa come nei film dellepoca, seduti allaperto.
Nel 54 diventa uno dei fotografi ufficiali della Biennale di Venezia, e da allora al 68 documenta quella che, allora, era una specie di festa («il mio lavoro consisteva nel cercare di dare unidea di quella festa», dichiara), percorsa magari da qualche malinconia. Ecco dunque Vedova, il volto profetico e ispirato, ma attentissimo alle cose concrete dellarte (si racconta che una volta, non potendo intervenire a una collettiva, abbia mandato un telegramma: «Prego scusare mia assenza. Sono con voi in spirito. Mi raccomando vendite»). Ecco Giacometti, che si aggira disorientato nelle sale della mostra, con il volto tormentato come le sue sculture. Ecco Yves Klein, col cravattino di gala, intento a dare una pennellata in extremis, sorvegliato da un giovanissimo Pierre Restany. Ecco Arturo Martini, cioè non lui (siamo nel 62), ma la sua Pisana e il suo Tito Livio: sono gli anni in cui i critici hanno la più alta disistima per quelle opere monumentali e classiche, considerate poco europee, da Italietta disinformata.
Quando poi alla Biennale sbarca la Pop art americana, nel 64, lui riprende un po tutti. Lo stesso anno, anzi, inizia a lavorare in America dove si reca più volte, entrando negli studi di Wahrol, Lichtenstein, Rauschenberg, Jim Dine. Memorabile è la serie di foto dedicata a Duchamp: con limpermeabile alla Sheridan che cammina per New York; mentre guarda una scacchiera disegnata su un tavolino di pietra; mentre osserva in silenzio le sue opere nel museo di Philadelphia.
Mulas non ha il mito dello scatto «naturale»: sa che è una finzione, esattamente come la posa. Gli basta che chi è fotografato sia se stesso. Spesso, poi, si concentra sul volto degli artisti: quello da contadino emiliano di Morandi, quello da monaco zen di Melotti, quello ciceroniano di de Chirico.
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