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Undici anni di inchieste cadute nel nulla: il flop di Mani pulite 2

Valanga di prescrizioni per i procedimenti che riguardano Pacini Battaglia, Necci, Squillante L’ex ad di Ferrovie assolto 42 volte Si va avanti per 11 imputati su 41

da Milano

Doveva essere la Mani pulite due, è finita, malinconicamente, con un interminabile elenco di prescrizioni. Da La Spezia a Perugia: undici anni dopo la giustizia getta la spugna, come spesso accade nelle aule: cade l’associazione a delinquere, sparisce la corruzione in atti giudiziari, escono di scena i protagonisti che allora riempivano le cronache dei giornali: il banchiere toscano Pierfrancesco Pacini Battaglia, quello «un gradino sotto Dio», i magistrati che avrebbero intascato mazzette, i manager delle Ferrovie dello Stato. Si andrà avanti solo per 11 dei 41 imputati e solo per il reato più grave, capace di resistere alle sollecitazioni del tempo: il riciclaggio.
Per il resto, il Tribunale di Perugia mette i titoli di coda ad una storia che aveva agitato l’Italia nel 1996: le 168 ore di intercettazioni del Gico di Firenze sui telefoni di Pacini; le manette al numero uno delle Ferrovie Lorenzo Necci, munificamente finanziato da Pacini con 20 milioni al mese; la rabbia dei macchinisti che, arrivati dalle parti di la Spezia, trasformavano i locomotori in fischietti e consideravano l’autodifesa di Necci - «I soldi di Pacini mi servivano per tirare avanti, io guadagno solo un miliardo, un miliardo e mezzo l’anno» - un’offesa personale.
Flash di un passato ormai remoto. Aspettative consumate nella diaspora dei fascicoli: una parte a Brescia per illuminare i rapporti fra Pacini, Di Pietro e un gruppetto di amici e per chiarire una volta per tutte l’amletico quesito: «sbancato» o «sbiancato?; una tranche a Milano per le mazzette sullo scalo di Fiorenza; il resto quasi subito, già ad ottobre ’96, a Perugia, la città giusta col metro del codice per giudicare i magistrati romani coinvolti negli episodi di malaffare.
Lentamente, l’Italia è cambiata. Di Pietro è uscito indenne dai processi, Pacini, non più tardi dell’anno scorso, è finito in cella, prima di Natale ha ottenuto l’affidamento ai servizi sociali e ora lavora come bibliotecario a Bientina (Pisa), il suo paese. Lorenzo Necci non c’è più, travolto la scorsa primavera da una macchina mentre era in sella alla sua bicicletta, ma non prima di aver recuperato, con un’impressionante raffica di 42 assoluzioni su 42 processi, l’onore finito sotto i tacchi.
Incredibilmente, solo il fascicolo perugino è rimasto impantanato: l’udienza preliminare è durata cinque anni, dal 2000 al 2005. E ci sono volute 48 udienze per portarla a termine e per certificare il non luogo a procedere per 49 degli indagati e il rinvio a giudizio per i restanti 41. Uno sproposito. Attualmente, anche se può apparire surreale, siamo ancora agli inizi del dibattimento di primo grado: il Pm Alessandro Cannevale ha chiesto al tribunale di dichiarare la prescrizione per gran parte delle accuse. Raccolte in 420mila pagine di atti. Ormai, materia per l’archeologia giudiziaria.
E i giudici hanno accolto il suo ragionamento; cadono le accuse nei confronti dell’ex capo dei gip di Roma Renato Squillante, al centro dei processi milanesi, e si perdono per strada quelle riguardanti Orazio Savia, Giorgio Castellucci e Roberto Napolitano. Stesso provvedimento, fra gli altri, per l’ex patron della Lazio Sergio Cragnotti e poi per Emo Danesi, Rocco Trane, Ercole Incalza, Silvano Larini, Marcello Petrelli.
Tempo scaduto: ad aprile 2005 per l’associazione a delinquere, a dicembre 2005 per la corruzione in atti giudiziari e il falso. Si va avanti per Pacini, ma il capo d’imputazione che lo riguarda è notevolmente ridimensionato. Resiste solo il riciclaggio. E il riciclaggio viene contestato anche ai figli di Necci, Giulio e Alessandra, e alla vedova Paola Marconi.
Ma senza fretta: la prossima udienza è stata fissata per il 7 maggio.

In linea con il ritmo tenuto sin qui.

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