Unicredit inciampa sui derivati e cade in Borsa

da Milano

La grande Unicredit torna a tagliarsi con la lama dei prodotti derivati venduti in questi anni alle piccole e medie imprese italiane perlopiù come protezione contro brutte sorprese sul fronte dei tassi di interesse. Il contenzioso non è nuovo, ma domenica sera Unicredit ha ammesso davanti alle telecamere di Report che a fine settembre la «ferita» potenziale per le aziende clienti raggiungeva il miliardo di euro. Tale cifra è da raffrontare su un controvalore complessivo dei contratti prossimo a 30 miliardi, si è affrettato a precisare sempre nel corso della trasmissione di Rai 3, il direttore generale di UniCredit Banca d’Impresa, Gianni Coriani, ma la reazione di Piazza Affari è stata brusca.
Debole fin dalle prime battute, Unicredit ha progressivamente ceduto terreno fino a crollare del 3,1% sotto la soglia psicologica dei 6 euro: 5,98 euro il prezzo di chiusura. A convincere gli operatori a vendere (gli scambi sono risultati pari all’1,5% del capitale) è stato il timore di assistere a una replica, seppur su scala molto differente, del caso Italease. A partire dal relativo acuirsi della battaglia legale già avviata da alcune aziende clienti rimaste scottate dai prodotti derivati costruiti per Piazza Cordusio dagli ingegneri dell’ex Ubm e distribuiti da Unicredit Banca d’Impresa: la superbanca milanese assorbe da sola circa la metà del mercato italiano. Secondo alcune indiscrezioni Unicredit starebbe tuttavia correndo ai ripari con l’obiettivo di cedere entro il prossimo mese derivati (precisamente Cdo) per almeno 150 milioni.
L’occasione per un aggiornamento, perlomeno informale, della situazione appare peraltro il consiglio di amministrazione di Unicredit che oggi a Roma approverà i conti del semestre. Si tratta della prima riunione del nuovo corso post acquisizione di Capitalia: 6,259 euro il valore su cui calcolare il prezzo di acquisto delle frazioni di azioni di Piazza Cordusio rimanenti dal concambio Milano-Roma dopo che alcuni soci hanno scelto la strada del recesso.
Il problema dei derivati tra Unicredit e le imprese clienti era iniziato nel 2004 con l’inversione della curva del costo del denaro. Allora il «disallineamento» (il cosiddetto mark to market negativo) per le aziende sarebbe stato pari a circa il doppio dell’attuale: 2,15 miliardi, su un nozionale di 32,5 miliardi.

Malgrado la ferita appaia quindi meno profonda ora che in passato, il danno perlomeno di immagine per una banca come Unicredit è innegabile; a dispetto anche dello sforzo profuso dal gruppo nel proporsi come apripista per una maggiore concorrenza sul mercato.
Oltre a rappresentare un altro grattacapo per Profumo insieme alle richieste di risarcimento danni avviate da alcuni soci della tedesca Hvb e al fatto di dover subentrare a Capitalia nel contenzioso Parmalat.

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