Sale lallarme Libia in casa Unicredit, che rischia ora di vedere decapitare il proprio primo azionista a seguito della decisione del Consiglio di sicurezza dellOnu di procedere al congelamento dei beni finanziari della famiglia Gheddafi. La parola finale spetta ai singoli governi, ma se lItalia seguirà la strada intrapresa da Stati Uniti e Gran Bretagna, potrebbe decidere di «sterilizzare» tutti gli investimenti in Piazza Affari del Colonnello. A partire da Unicredit, di cui Tripoli controlla il 7,5% attraverso la propria Banca Centrale e il Fondo sovrano Lia.
Un problema non di poco conto visto che, considerando la capitalizzazione di Borsa di Unicredit, la quota libica vale 2,6 miliardi circa. Molto anche per le Fondazioni di Verona, Torino e Carimonte, socie storiche di Unicredit che in linea teorica sarebbero le prime a dover intervenire per ridare stabilità allazionariato di Unicredit nel caso la situazione precipitasse: lassemblea di bilancio è fissata in aprile e gli Enti pesano complessivamente per il 13 per cento.
Da qui la preoccupazione che si respira in Piazza Cordusio, che ieri sera ha sottolineato di seguire «con attenzione la situazione». Sabato al Forex il presidente di Unicredit, Dieter Rampl, non aveva peraltro voluto commentare le voci di una possibile rete di protezione della quota libica allo studio delle Fondazioni: «Non so che cosa stiano facendo», si era schernito il banchiere, ma che la situazione in Unicredit sia complessa è confermato dallo stesso fatto che da giorni la banca italiana non riesce a mettersi in contatto con Farhat Omar Bengdara, governatore della Banca centrale libica e «ambasciatore» di Gheddafi nel consiglio di amministrazione.
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