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Un'indagine "finale" affidata all'ombra di Sherlock Holmes

Arturo Pérez-Reverte trasforma un'isola nel set per un romanzo citazionista

Un'indagine "finale" affidata all'ombra di Sherlock Holmes

Conan Doyle inventò Sherlock Holmes nel 1887 e se ne liberò, dopo crisi e lisi nel 1893, o almeno ci provò. Fece precipitare Sherlock avvinghiato con il mortale e geniale nemico Moriarty giù da una cascata svizzera. Lo fece in un racconto intitolato Il problema finale. Holmes fu risuscitato a furor di lettori. Prima arrivò Il Mastino dei Baskerville (1902), comunque ambientato prima dello scontro mortale e poi L'avventura della casa vuota (1903), in cui si scopre che Holmes è sopravvissuto alla cascata e riprende il suo sodalizio con Watson e le sue indagini.

Arthur Conan Doyle non riuscì a liberarsi del suo ingombrante personaggio. Peggio, il detective e il fedele Watson che ne scrive le avventure hanno generato ogni genere di apocrifo. Tanto per dire nei romanzi originali, anche se è difficile da credere, la frase "Elementare Watson" non risuona mai. Questo senza contare le decine di riduzioni cinematografiche e televisive. Dove interpretare Sherlock Holmes può facilmente condizionare la carriera di un attore, appiccicarlo al ruolo. Queste premesse servono per capire la raffinatezza del gioco letterario, condito di rispecchiamenti cinematografici, che Arturo Pérez-Reverte mette in scena in Il problema finale (editore Settecolori).

L'esercizio di prestigio, va detto subito, dà vita ad un romanzo che ticchetta come un giallo classico di assoluta precisione, il che non era scontato, dato il numero enorme di citazioni inserite come tasselli in un mosaico bizantino (del resto il tutto si svolge su un'isola greca). Arturo Pérez-Reverte fa approdare, siamo nel giugno 1960, su Utakos, una piccola isola davanti a Corfù, un gruppo variegato di turisti. Rimarranno isolati per un rovinoso temporale nell'unico albergo del luogo. E, ad un certo punto, troveranno una vacanziera inglese di mezza età, Edith Mander, morta nel capanno sulla spiaggia.

All'apparenza si tratta di un suicidio, a partire anche dal fatto che il capanno è stato chiuso dall'interno. Ma il dubbio aleggia e uno degli ospiti bloccati nel mare greco riconoscibile, e riconosciuto, da tutti, è l'attore Hopalong Basil, famoso - anche se un po' sul viale del tramonto - per aver interpretato a ripetizione il detective che vive al 221B di Baker Street. E questo crea una sorta di illusione collettiva in cui l'attore si sovrappone al personaggio: gli altri ospiti gli chiedono di indagare, visto che la polizia è bloccata lontano dalla tempesta. In quello che è un classico giallo della camera chiusa.

E così Basil che ha recitato di tutto, anche in ruoli shakespeariani, e però viene ricordato solo per la pipa del detective, si trova a indagare, prima controvoglia poi trascinato da questo strano miscuglio di realtà e finzione...

A fargli da Watson uno scrittore di thriller e western di grande successo e bassa qualità: Francisco Foxá. Ne esce una sciarada dove Basil a colpi di deduzioni imparate sul set e leggendo i libri di Conan Doyle deve provare a risolvere un rompicapo dove ci scappano altri morti.

Non rovineremo la trama al lettore, ci limitiamo a dire che Arturo Pérez-Reverte costruisce bene il meccanismo e alla fine della storia torna tutto, in un modo che difficilmente il lettore potrebbe aspettarsi. Ma il valore del romanzo è dato dalla carrellata di tipi umani che si muovono sull'isola. Oltre ai già nominati: un produttore italiano sbruffone e una cantante lirica che ha avuto tempi migliori; un ambiguo villeggiante tedesco con consorte; la proprietaria della pensione si chiama Auslander ed è sopravvissuta ai lager; c'è Karabin, un medico solerte ma non molto specchiato, l'amica della donna morta che viaggiava con lei... e poi il personale dell'albergo. Ogni personaggio: una storia e una carrellata di citazioni sul mondo del cinema. Con la precedente vita di Basil e i suoi aneddoti da grande schermo, a volte veri a volte inventati, che fanno da contrappunto agli eventi sanguinosi che accadono.

Alla fine tutti nell'albergo finiranno per diventare schiavi del ruolo che interpretano, non solo Basil. La realtà diventa sempre più fragile e la natura umana si rivela essere per quel che è: una maschera che appiccichiamo sul mistero dell'esistere. Tanto da non riconoscerci più.

Alla fine cosa lega detective e assassino: la voglia di trasformare il proprio agire in arte. In fondo è anche ciò che lega scrittore e pubblico. Pérez-Reverte, in questo caso, ce lo ricorda in un complicato gioco di specchi e citazioni (che vanno da Conan Doyle ai film di Errol Flynn passando per buona parte dello scibile umano).

Poteva essere un esercizio fatuo e lezioso, citazionismo gratuito. E invece è un'avventura sul bagnasciuga che separa il reale dal mare del fantastico. Se cercate la letteratura spesso potete trovarla che prende il fresco proprio lì, rimirando l'allucinazione di un delitto perfetto.

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