Milano - E pensare che neppure un anno fa era così convinto. «Finita l’avventura, lo dico subito, tolgo il disturbo». Prodi 1, prima delle elezioni, e Prodi 2, dopo la crisi. Messi una fianco all’altra fanno un effetto quasi comico. Cosa fare se il governo dovesse cadere? La domanda è sempre la stessa, come gli stessi sono i leader della maggioranza interpellati in momenti differenti della stagione governativa, dalle acque un poco mosse dell’autunno a quelle tempestose di questi giorni. Le risposte, invece, cambiano come il giorno dalla notte.
Prendete Piero Fassino, impegnato ora a trovare i numeri per tenere in vita la maggioranza in crisi. Ad ottobre era sicuro sulla cosa giusta da fare in una situazione come questa. Il contrario esatto di quanto sostiene adesso. «Se cade Prodi - diceva il segretario della Quercia intervistato da Repubblica il 30 ottobre 2006 - lo scenario più rispettoso della volontà degli elettori è che si vada a votare: non vedo francamente maturare condizioni e larghe coalizioni politiche o di governi tecnico-istituzionali, mi paiono ipotesi di scuola, del tutto legittime, ma senza alcun grado di realismo che possa far credere che siano scenari praticabili».
Massimo D’Alema è solo l’ultimo in ordine cronologico del festival di detti e contraddetti sui doveri della maggioranza nella sventurata ipotesi di una crisi. Il giorno prima della mozione sulla politica estera bocciata dal Senato il ministro degli Esteri aveva avvertito tutti con un ultimatum, la cui perentorietà è poi svanita rapidamente davanti allo spettro del voto anticipato. Che il governo debba «andare a casa» qualora non fosse uscita da Palazzo Madama una maggioranza autonoma sulla politica estera «è un principio costituzionale», aveva spiegato D’Alema solo 4 giorni fa.
Larghe intese? «Neanche per sogno», diceva a novembre la capogruppo al Senato dei Ds Anna Finocchiaro intervistata dal Mattino -. L’alternativa al governo Prodi è un rapido ritorno alle urne». Ma anche nella Margherita ci sono i campioni del triplo salto carpiato, soprattutto quando le lezioni di etica sono impartite all’avversario. A cominciare dal leader Dl e vicepremier Francesco Rutelli, sicurissimo delle vere regole democratiche nel 2003. «In un sistema bipolare se il governo dovesse cadere non c’è altra strada del ricorso alla volontà popolare - spiegò Rutelli al termine di un vertice dell’Ulivo -. Sarebbe una prova non solo di inettitudine (di chi è al governo, ndr) ma anche di irresponsabilità».
D’altra parte di cosa meravigliarsi, se è lo stesso Romano Prodi a contraddire se stesso nell’ora del pericolo. Adesso il premier dimissionario detta le condizioni per fare il bis, ma ad aprile dell’anno scorso, a pochi giorni dal voto, mostrava i muscoli con gli alleati, giurando: «Se vinciamo e si fa il governo a quel punto non esiste una via di mezzo: se cado o i miei mi fanno cadere si va al voto».
E dentro Rifondazione, che ora non vede alternative alla fiducia a Prodi? Il senatore Giovanni Russo Spena era di avviso diverso solo qualche mese fa: «Se dovessero accadere pasticci secondo me cade il governo. Non c’è “larghe intese” che tenga, a quel punto si va ad elezioni». Era convinto di questo anche il leader dello Sdi Boselli: «Dopo questo governo ci sono soltanto le elezioni». Altrettanto deciso era il ministro ds Vannino Chiti, secondo il quale «il governo Prodi è di legislatura: se dovesse cadere - e io non credo proprio - sarebbe la fine della legislatura e si andrebbe a nuove elezioni».
Bifronte e mobile invece la strategia del leader Udeur Clemente Mastella, comunque convinto a non accanirsi terapeuticamente su una maggioranza spaccata al suo interno: «Se cade il governo Prodi non vedo né un rimpasto né un rimpastino, ma cambia tutto, perché viene meno il presupposto dell’esistenza delle attuali coalizioni» disse il ministro della Giustizia a dicembre. Se Prodi cade questo avviene solo perché tra i suoi feudatari non si riesce a trovare un accordo». E ancora: «Il governo può cadere non per una spallata ma per implosione».
A febbraio già vedeva all’orizzonte, chiarissima, quell’«apocalisse» sul voto per la politica estera: «È chiaro che se il governo cadesse non si tornerà all’attuale maggioranza. Io sono leale a Prodi - diceva Mastella a Repubblica - ma se la sinistra estrema vota contro l’Afghanistan per me cambia tutto. Sarà l’apocalisse». Ma con uno sbocco diverso da quello indicato in precedenza. «C’è bisogno di un nuovo centro, altrimenti manca l’equilibrio».
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