Milano A pensarci bene, era troppo strano per essere vero. Per la prima volta dal 1994, la Procura di Milano aveva chiesto di archiviare una inchiesta a carico di Silvio Berlusconi, prendendo atto che a carico del Cavaliere - almeno in questo caso - non c’era uno straccio di elemento sufficiente per sostenere in un processo la sua colpevolezza. E infatti ieri un giudice preliminare insorge: richiesta respinta, almeno per ora; il 16 luglio si terrà un’udienza per verificare se davvero non ci sono prove; se quel giorno il giudice si convincerà che la Procura è stata troppo buona con Berlusconi, le ordinerà di tornare sui suoi passi e di formulare il capo di imputazione, ovvero di chiedere un altro processo per il presidente del Consiglio.
Eppure a presentare la richiesta di archiviazione era stato un magistrato non sospettabile di simpatie per il premier: Maurizio Romanelli, sostituto procuratore, esponente del «Movimento per la giustizia» e recordman di preferenze alle ultime elezioni tra i magistrati milanesi. Era stato Romanelli, nel dicembre scorso, a chiudere le indagini nate dalla pubblicazione sul Giornale delle intercettazioni tra il leader dei Ds Piero Fassino e il capo di Unipol Giovanni Consorte, quelle in cui Fassino festeggiava come un affare di famiglia la conquista della Banca Nazionale del Lavoro. Per quella fuga di notizie sono stati inviati a giudizio l'editore del Giornale, Paolo Berlusconi, e il titolare della società di intercettazioni che teneva sotto controllo i telefoni. Il capo del governo sembrava invece destinato ad uscire di scena. Il suo unico ruolo nella vicenda era stato quello di ricevere ad Arcore il fratello insieme a Roberto Raffaelli, titolare della Rcs, una delle società che gestiscono il «Grande Orecchio» per conto dei pm. Raffaelli voleva far sentire al premier la voce di Fassino. Ma il computer con l’audio si inceppò, e andò a finire che il Cavaliere si addormentò.
Nè l’incontro di Arcore nè la pubblicazione dell’intercettazione pochi giorni dopo sul Giornale, secondo la Procura, erano sufficienti per imputare Silvio Berlusconi. Il 15 dicembre scorso, dopo avere atteso correttamente che il governo superasse un passaggio delicato come il voto di fiducia della Camera, Romanelli aveva chiuso l’indagine chiedendo il rinvio a giudizio di quattro indagati: Paolo Berlusconi, Roberto Raffaelli e due intermediari dei contatti tra il fratello del premier e l’interceptor. Per Silvio Berlusconi era stata adottata una procedura particolare: il premier venne iscritto nel registro degli indagati per i reati di ricettazione e di concorso in rivelazione di segreti d’ufficio, e lo stesso giorno venne chiesta l’archiviazione del procedimento a suo carico per entrambi i reati. Un modo per demandare ad un giudice la valutazione degli elementi a carico del Cavaliere, ma anche per spiegare chiaramente quale fosse la linea della Procura: dei dati di fatto storicamente accertati, nè l’incontro ad Arcore nè la pubblicazione sul Giornale del testo della telefonata di Fassino costituiscono elementi di prova adeguati a sostenere in un’aula di tribunale la colpevolezza del capo del governo, visto che nessuna testimonianza parla di un ruolo attivo del Cavaliere nella vicenda.
Invece ieri il giudice Stefania Donadeo, dopo averci pensato sei mesi, rispedisce tutto in Procura spiegando di non essere affatto convinta dell’innocenza del premier, e di voler vedere più chiaro nella faccenda. Per l’esattezza: accoglie la richiesta di archiviazione per una sola accusa, quella di ricettazione, ma ordina approfondimenti per l’ipotesi di rivelazione di segreto d’ufficio. Così il prossimo 16 luglio si terrà una udienza dalla dinamica quanto meno insolita: davanti al giudice compariranno il pm Romanelli e gli avvocati del premier, tutti intenti a darsi ragione a vicenda sostenendo che in quelle carte non c’è traccia concreta della colpevolezza di Berlusconi.
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