UNIVERSITÀ Quelli bravi vanno al Collegio

Sull’esempio anglosassone è nato tre anni fa a Milano un centro d’eccellenza, sostenuto dall’imprenditoria, che si propone di superare il gap fra gli atenei italiani e quelli europei

Se parlate dei mali dell’università italiana con un professore, non importa che sia di destra o di sinistra, vi dirà più o meno queste cose: ci vorrebbe il numero chiuso o comunque un sistema per non penalizzare gli studenti migliori; bisognerebbe diversificare gli stipendi dei docenti e attrarre i migliori pagandoli di più; bisognerebbe introdurre dei metodi di valutazione affidabili, in modo che il criterio usato a Canicattì sia uguale a quello di Aosta; bisognerebbe fare degli esami seri e limitare il numero degli abbandoni senza penalizzare i più meritevoli; sarebbe bene che i fondi pubblici venissero ripartiti tra i vari atenei su base concorrenziale, premiando economicamente i migliori. Piuttosto gettonata anche la proposta dell’abolizione del valore legale del titolo di studio, che risolverebbe molti dei problemi appena detti in un colpo solo.
Queste e molte altre cose vi direbbe un professore in un colloquio privato. In pubblico invece solo pochi hanno il coraggio di farlo, perché il sistema è corporativo e le pressioni sono forti, perché è politicamente scorretto parlare di numero chiuso, perché la meritocrazia (tra docenti e atenei) creerebbe delle università di serie A e di serie B e questo non sta bene, perché in quelle di serie B ci andrebbero i poveracci mentre nelle altre i figli dei ricchi, e via dicendo. Adesso succede lo stesso, ma si finge che tutti siano uguali.
Insomma, l’università è uno di quei campi dove vige la regola, tipicamente italiana, per cui ognuno ha la sua cura magica e rivoluzionaria, ma in concreto a tutti va bene che niente cambi. Il risultato è un’università di massa che mantiene una struttura d’élite, con tutti i guasti e le incongruenze che ne derivano: la retrocessione nelle classifiche internazionali (dove il Politecnico di Milano si piazza al 56° posto nella top ten di Time, la Sapienza di Roma al 97°), la fuga dei cervelli, una ricerca agonizzante, una delle più alte percentuali di abbandono. Punto dolente di tutto il sistema l’età: i nostri laureati sono tra i più vecchi d’Europa e si affacciano al mondo del lavoro con cinque anni di ritardo rispetto ai colleghi.
In questo quadro a tinte fosche, ci sono delle piccole isole felici, le famose eccezioni che confermano la regola: progetti che potremmo definire «pilota», esperienze d’eccellenza che auspichiamo servano da traino per altre simili. Di una in particolare ci interessa parlare, perché il suo è davvero un caso esemplare. Si tratta del Collegio di Milano, uno dei 13 campus italiani riconosciuti dal ministero (al pari di istituti storici come il Ghisleri, il Borromeo di Pavia e la Scuola Normale di Pisa, per intenderci), che è particolare fin dalla sua nasciata.
È il 1997 quando quattro dottorandi italiani a Oxford e Cambridge inviano alla Stampa di Torino una lettera sulla necessità di restituire ai nostri atenei livelli di eccellenza e meritocrazia. Si chiamano Filippo de Vivo, Luca Einaudi, Manuela Magliocchetti e Carlo Ratti. Grazie alla lettera, vengono invitati a un convegno sul numero chiuso organizzato dall’Università di Torino, al quale partecipa anche Umberto Eco, tra i primi firmatari di un documento, che verrà battezzato Manifesto di Cambridge, dove si formalizza la proposta di introdurre in Italia i college all’inglese, come luogo di studio e di incontro per gli studenti universitari selezionati in base al merito. Il Manifesto raccoglie subito adesioni prestigiose.
Fin qui niente di nuovo, di manifesti firmati è lastricato l’inferno. Qui invece il buon proposito va avanti: l’idea di dare vita a una nuova esperienza come il Collegio di Milano nasce durante un semimario organizzato da Aspen Institute Italia sui problemi dell’università. Aspen coinvolge Assolombarda e il Comune di Milano, che danno vita a un comitato promotore.
Poi inizia la faticosa ricerca di sede, finanziamenti, soci fondatori. Dopo cinque anni di alti e bassi e mille immaginabili difficoltà, grazie soprattutto all’impegno dell’Aspen Institute e all’aiuto di un gruppo di imprenditori illuminati, nel febbraio del 2003 il Collegio di Milano prende il via. La cosa incredibile (e anche per questo ne parliamo come caso esemplare) è che il progetto ha messo insieme tutte e sette le università milanesi (Statale, Cattolica, Bocconi, Politecnico, Bicocca, Iulm e San Raffaele), Comune, Provincia e Regione, la Camera di Commercio e l’Assolombarda, e una lunga serie di sponsor privati che vanno da Mediaset a BancaIntesa, da Bracco alla Edison alla Pirelli all’Unicredito. I soci fondatori si sono impegnati a versare 50mila euro l’anno per almeno cinque anni.
Per farla breve, adesso il Collegio di Milano è al suo terzo anno di attività: in un edificio progettato dall’architetto Marco Zanuso negli anni Settanta ospita 100 studenti eccellenti, scelti tra i migliori delle sette università milanesi secondo un criterio assolutamente meritocratico: la media non deve essere inferiore al 27, devono essere in pari con gli esami e avere interessi culturali variegati. «Non vogliamo dei secchioni - spiega Giancarlo Lombardi, ex ministro della Pubblica istruzione con il governo Dini e presidente del Collegio - ma ragazzi in gamba che siano interessati ad ampliare le loro conoscenze. La retta annuale è di 11mila euro, ci sono 4 fasce di reddito e i meno abbienti possono usufruire di borse di studio, ma tutti pagano qualcosa, per noi è un principio di responsabilità. E siamo molto esigenti: oltre al normale corso di studi gli studenti il pomeriggio devono seguire corsi di formazione interdisciplinare, gruppi di lavoro e incontri culturali».
L’idea infatti è quella di creare una comunità di intelligenze dove lo studente di ingengeria studia filosofia e l’umanista la fisica quantistica. Nelle aule del Collegio sono passati in sei semestri di attività nomi come Mario Monti, Eva Cantarella, Salvatore Veca, Giulio Giorello, Tullio Regge, Margherita Hack, Fabrizio Onida, Dario Del Corno, Edoardo Boncinelli, Michele Salvati (che è l’attuale presidente del Comitato Scientifico). E anche attori, registi, editori, scrittori giornalisti (da Ettore Mo a Paolo Mieli, da Maurizio Nichetti a Lina Wertmüller, da don Rigoldi a Vivian Lamarque, da Beppe Severgnini a Ottavia Piccolo, da Carlo Delle Piane al fotografo Fabrizio Ferri), ognuno per portare la propria testimonianza e un pezzetto di mondo esterno tra le mura del Collegio.
Perché questa è una delle cose alle quali viene data più importanza e si cerca di far intervenire nell’attività didattica gli sponsor (parola tanto odiata) coadiuvati dai tutor (altra parola tabù), in modo che il mondo del lavoro non sia una entità fumosa e lontana come invece succede nel resto della nostra università.
L’idea che i soldi di un finanziatore possano minare la purezza della ricerca e dell’attività didattica è un’altra delle fissazioni del politicamente corretto, ma Lombardi ci ride su: «Volesse Dio che ci fosse un interesse del mondo imprenditoriale così forte da correre dei rischi». E i fondi, come scriveva di recente in una grande inchiesta su Repubblica dedicata all’educazione di Oxbridge il sociologo inglese Anthony Giddens, ex direttore della London School of Economics, sono il punto debole di una unversità dove «la condizione sociale e la paga dei docenti accademici sono diminuite. Ed è difficile attrarre i migliori, persino nelle migliori università.

Perché allora non chiedere a coloro che traggono vantaggio dall’educazione universitaria di ripagare una parte di costi?».
Il Collegio di Milano non sarà certo paragonabile a Oxford o Cambridge ma, come si dice, il battito d’ali di una farfalla può alle volte scatenare un uragano.

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