«Usa e Israele hanno già pronto un piano per far fallire Hamas»

Ma i due governi smentiscono il «New York Times». Washington ribadisce: gli estremisti rinuncino al terrorismo e riconoscano lo Stato ebraico

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

La Casa Bianca si affretta a smentire. Il governo israeliano è ancora più rapido e la batte sul tempo: non c’è niente di vero nelle «rivelazioni» del New York Times circa un piano comune per rovesciare il risultato delle elezioni in Palestina e cacciare il più presto possibile Hamas da un governo che il movimento estremista islamico deve ancora formare. Le smentite non sempre tolgono credibilità alle notizie. In qualche caso, anzi, «fughe» e sconfessioni sono elaborate pressappoco dalla stessa mano. Che gli Stati Uniti e lo Stato di Israele siano tentati dal prendere contromisure al risultato totalmente imprevisto di elezioni che Bush aveva voluto e Sharon e il suo delfino Olmert tollerato nella convinzione che le cose sarebbero andate in tutt’altro modo. Ed è altrettanto e più credibile che i due governi abbiano preparato un piano in quella forma e con quel vocabolario.
Sostiene il New York Times che americani e israeliani avrebbero deciso di costringere il presidente dello «Stato» palestinese, Abu Mazen, a rifiutarsi di incaricare i vincitori di formare il nuovo governo e ad adottare invece una tattica di tergiversazione che lo porti a indire tra pochi mesi nuove elezioni, alle quali forse ad Hamas sarebbe proibito partecipare. La motivazione più recente sarebbe che gli integralisti «hanno già avuto e perduto la loro occasione per essere legittimati o almeno tollerati: riconoscere l’esistenza dello Stato di Israele, accettare i precedenti accordi tra lo Stato ebraico e l’Olp e abiurare il terrorismo. Da quel momento in poi ogni reazione diventa legittima per impedirgli di governare. A cominciare dalle pressioni economiche. Israele ha rinviato finora la sospensione dei rimborsi dovuti ai palestinesi per i proventi delle dogane, ma ha fatto sapere che lo farà se non avrà da Hamas «le dovute immediate garanzie». Gli Stati Uniti adotterebbero dal canto loro sanzioni economiche, al fine, dichiarato secondo il New York Times, di «mettere Hamas con le spalle al muro», chiudere la valvola dell’ossigeno, fare affondare la Palestina nel suo deficit di un miliardo di dollari l’anno, far crollare l’embrione di Borsa palestinese (già in caduta di oltre il 20 per cento dopo le elezioni del 25 gennaio), impedire al governo di governare anche nella piccola gestione quotidiana, fra cui il pagamento dei suoi numerosissimi impiegati (lo Stato è spesso l’unica fonte di reddito) tra cui i ben 60mila agenti della Forza di sicurezza.
Un piano di destabilizzazione totale, le cui grandi linee sarebbero state comunicate ad Abu Mazen per metterlo in condizione di includerle nel suo discorso di inaugurazione della legislatura e nelle sue trattative con Hamas. Ma il New York Times lo leggono anche gli integralisti, che subito hanno denunciato un «ripudio del processo democratico che gli Stati Uniti invocano giorno e notte». Una critica che ha indotto il ministro degli Esteri israeliano Mark Regev a una smentita assai secca: «Non esiste alcun piano di questo genere». E il Dipartimento di Stato a imitarlo poco dopo.
Che intenzioni del genere esistano e che piano piano vengano esaminate è invece innegabile. Israele può fare molte cose perfettamente legittime come rifiutarsi di trattare con il governo Hamas per motivi di sicurezza nazionale. Più difficile è il compito degli Stati Uniti, che vedono messi in gioco sia gli interessi degli alleati di Gerusalemme sia la credibilità della «dottrina» dell’amministrazione Bush di rinnovamento del Medio Oriente attraverso la democrazia. Soffocare un’economia già in bancarotta come quella palestinese sarebbe molto agevole. Destabilizzare i Territori quasi altrettanto.

Ad esempio i militari e paramilitari senza paga, che già provengono da Al Fatah, l’organizzazione fondata da Arafat e inopinatamente sconfitta alle urne, potrebbero avere un incentivo ulteriore a intervenire con la forza. Ma ciò imporrebbe all’America di «riconsiderare» la reale applicabilità della sua nuova «filosofia» di guarigione del Medio Oriente e del mondo attraverso l’imposizione del metodo democratico.

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