Politica

Usa, ergastolo al predicatore d’odio

Fa discutere la dura sentenza contro l’imam che incitava alla guerra santa

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Un accordo legislativo che è un compromesso, una sentenza su cui non si è potuto raggiungere il compromesso desiderato. Sono gli ultimi due passi, significativamente sincronizzati dalla coincidenza, di una delle guerre americane contro il terrorismo, la più importante, forse la decisiva: quella che si combatte nelle corti e nelle carceri, nell’amministrazione della giustizia e della pena. La sentenza è un ergastolo: contro uno studioso musulmano giudicato colpevole di «disseminare l’odio e la guerra». Lo ha condannato un giudice della cittadina di Alexandria, in Virginia, a due passi da Washington. Nelle stesse ore in cui il compromesso prendeva forma a Washington nel tempio legislativo che è il Congresso.
Il verdetto, va notato, non è stato pronunciato in base alle leggi speciali conosciute sotto la denominazione riassuntiva di «Patriot Act», bensì applicando un codice normale. L’accusato è un personaggio singolare. Si chiama Alì al-Timimi. È di origine irachena, predica nelle moschee, fa circolare il suo pensiero attraverso internet. È considerato, nelle parole dell’accusa, un «leader spirituale e intellettuale dei giovani» che vanno in giro per il mondo ad addestrarsi alla «Guerra Santa in difesa dell’Islam». Egli ha più volte dipinto nei suoi discorsi l’America come una «forza del male». Ha definito il disastro dello Shuttle spaziale Columbia nel 2003 un «buon segno» per i musulmani nel conflitto apocalittico con l’Occidente e all’indomani della strage delle Torri Gemelle a New York ha incitato i suoi seguaci ad arruolarsi con i talebani per difendere l’Afghanistan contro l’America. La difesa si è appellata alla «libertà di parola», che il giudice, Leonie Brinkema, ha giudicato «fuori tema». Il magistrato lo ha allora condannato all’ergastolo pur deplorando di essere obbligato a una sentenza che considera eccessivamente draconiana.
Il «Patriot Act», proposto da Bush come parte della «guerra al terrore» e approvato all’unanimità nell’emozione fresca per l’attentato, contiene clausole che non solo plasmano la giustizia in senso draconiano, ma limitano, a giudizio di molti, i diritti della difesa e soprattutto estendono i poteri dell’accusa e dello Stato ben oltre i limiti insiti nella tradizione americana. Si tratta di una legislazione pro tempore, che per rimanere in vigore deve essere prolungata da un nuovo voto parlamentare. E questa volta il Congresso (così come l’opinione pubblica) è molto più diviso. I democratici ammoniscono che il «Patriot Act» rappresenta «l’inizio di una grave involuzione nei rapporti fra i pubblici poteri e la cittadinanza». E Dick Armey, un repubblicano conservatore che fino a due anni fa è stato capo del gruppo parlamentare repubblicano alla Camera, si è spinto fino a dire che «il Dipartimento della giustizia è in questo momento la più grande minaccia alle libertà civili del nostro Paese». Bush aveva chiesto invece non solo una proroga totale del provvedimento, ma aveva indicato il suo desiderio di vederlo trasformato in parte integrante delle leggi permanenti. Dopo una dura battaglia si profila adesso un compromesso, almeno in seno alla Commissione giustizia delle due Camere: la legge sarà rinnovata ma rivista.

Verranno aggiunte più severe restrizioni al potere delle autorità di detenere i sospetti senza processo.

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