Usa, l’attendista Obama fa arrabbiare i liberal

Secondo gli analisti del Woodrow Wilson Center, Obama sta perdendo, in Iran, l'attimo propizio. E il Woodrow non è certo un centro studi conservatore, sostiene da sempre la nuova politica estera di Obama. Ma proprio da sinistra in queste ore si alzano dubbi, perplessità e, già, qualche recriminazione.
È giusto che la Casa Bianca continui a mantenere un profilo così basso? Sì, rispondono i consiglieri del presidente, enumerando ragioni ormai note a tutti. Obama (che ieri è sembrato inasprire i toni, denunciando che in Iran «non c’è giustizia», e sottolineando come sia rimasto lettera morta l’appello al governo a evitare «azioni violente e ingiuste») non può esporsi più di quanto fatto finora, perchè ogni passo ulteriore verrebbe usato dal regime per schiacciare nel sangue la protesta. Obama non può predicare una politica estera molto più moderata rispetto a quella interventista di Bush, e poi contraddirsi alla prima occasione. Non può predicare il dialogo e poi incitare alla rivolta. Tutto vero, ma l'impressione è che si sia cacciato in una situazione imbarazzante, dal quale rischia di uscire perdente. Basta leggere certi blog «liberal» americani per captare uno smarrimento profondo. Scrivono che è giusto non interferire nelle vicende di Paesi terzi, ma la rivolta di Teheran è spontanea, è genuina e i giovani iraniani si battono per la democrazia, i diritti umani, la libertà. Può l'America, che di questi valori è l'alfiere, astenersi in frangenti come questi? Se Obama intende davvero riaffermare la leadership morale dell'America, è il momento per dimostrarlo, mentre i suoi appelli contro la violenza, blandi e generici, rischiano di essere interpretati come una legittimazione di fatto del regime. Il popolo di sinistra apprezza un presidente che si ispira a Martin Luther King, ma si aspetta che dimostri anche il suo coraggio, tanto più che anche sul piano strategico la partita sembra già compromessa.
Nessuno sa come andrà a finire la rivolta in Iran, ma le ipotesi più accreditate sono due: la più verosimile è che il regime riprenda il controllo della situazione; l'altra è che l'Iran cada in uno stato di instabilità permanente. Sangue e proteste. Proteste e sangue. Per settimane, forse per mesi. In entrambi i casi come può Obama pensare di fidarsi della parola di un personaggio come Ahmadinejahd, affrontando il tema, irrisolto, della bomba nucleare? La politica del dialogo con Teheran è già morta. Defunta. E ci vorranno anni prima che possa essere riesumata credibilmente. Barack Obama non può ammetterlo pubblicamente, ma c'è già una croce rossa sulla parola Iran. E, allora, perché non rompere gli indugi? Perché non schierarsi davvero dalla parte della giustizia, al fianco dei ragazzi di Teheran, nella speranza che la pressione del mondo faccia implodere il regime? Fino a ieri lo chiedevano i repubblicani, ora anche la sinistra.

E tutti concordano che sarebbe stato più prudente aspettare i risultati delle elezioni prima di lanciare offerte di dialogo, senza porre condizioni. Questi sono errori da novizi. E si pagano, anche se a commetterli è il presidente più amato del mondo.
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