Alberto Pasolini Zanelli
da Washington
Unaltra battaglia nella «guerra dellimmigrazione» degli Stati Uniti. Combattuta stavolta in Congresso e vinta dai fautori di più stretti controlli, evidentemente sullonda del vasto consenso popolare che ha suscitato la decisione di Bush di mandare i soldati alla frontiera con il Messico. Consenso forse destinato ad erodersi un poco non appena il presidente presenterà il «conto» della misura: quasi due miliardi di dollari per finanziare loperazione. Ma per adesso gli umori sono battaglieri, sia nellopinione pubblica sia fra i parlamentari. Il Senato ha approvato ieri un disegno di legge proposto dal repubblicano conservatore James Inhofe, dellOklahoma, che sancisce quello che da lontano può parere lovvio: linglese è la lingua ufficiale degli Stati Uniti. Di fatto lo è stata sempre, ma la Costituzione non lo prevede e la lingua inglese è stata forse il più potente fra gli strumenti per trasformare una «nazione di immigranti» in una Nazione attraverso il crogiuolo del «melting pot».
Più di trenta Stati dellUnione contengono già questa clausola, nella maggioranza dei casi aggiunta di recente; ma sul piano federale nulla era stato tentato finora. Il Senato ha detto stavolta sì, con 63 voti contro 34, una maggioranza confortevole che va oltre i «confini» del Partito repubblicano, che controlla 55 seggi su cento. Sulla proposta sono confluiti dei democratici conservatori, in numero tale da compensare largamente la defezione di alcuni repubblicani «liberali» o moderati; ma non sufficiente per un emendamento alla Costituzione, per cui sono necessari i due terzi di entrambe le Camere (nel caso del Senato 67 voti) e, in più, la ratifica da parte delle assemblee di tre quarti degli Stati.
Inhofe e i suoi colleghi preferiranno, dunque, aggirare lostacolo battendo la strada di una legge ordinaria. Nel dibattito essi hanno già incontrato severe obiezioni di gran parte dei Democratici, culminate nella dichiarazione del capogruppo Harry Reid, del Nevada, che lha definita «razzista», ma continuano ad avere il vento in poppa, soprattutto per il precedente stabilito da Bush che qualche settimana fa è intervenuto in persona per delegittimare lesperimento di cantare linno nazionale americano in spagnolo.
Lidea era venuta alle associazioni di ispano-americani con lappoggio anche di altre comunità di immigrati. La versione eterodossa dellinno è stata inaugurata durante le massicce dimostrazioni in tutte le città principali da parte di immigrati, legali o meno, e dei loro familiari o discendenti, che intendevano prevenire con questa mobilitazione le misure che cominciano ora a venire adottate. In loro favore si è mosso qualche esponente politico di rilievo, fra cui il senatore Pete Domenici, di origine italiana, che ha raccontato come anche sua madre sia stata per qualche tempo un«immigrante illegale». Ma lopinione pubblica ha reagito nella sua maggioranza negativamente, manifestando preoccupazione per il possibile inizio di una «perdita di identità» da parte degli Stati Uniti, che sono sì una «nazione di immigranti» ma che possono permettersi di esserlo proprio per la rapidità con cui i nuovi venuti si saldano al «vecchio ceppo»; un tema reso ancora più attuale dalla coincidenza con le guerre in corso in Irak e in Afghanistan, che hanno portato a un rafforzamento dei sentimenti patriottici.
La preoccupazione di fondo, tuttavia, rimane quella dei «clandestini», che si calcola siano fra gli undici e i dodici milioni, per di più concentrati in determinati Stati o aree urbane. Di qui le richieste crescenti per la costruzione di una barriera fisica sul confine di 3.200 chilometri tra Stati Uniti e Messico, accolta da Bush anche in funzione elettorale.
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