Se ne andrà presto in pensione senza mai essere stata impiegata, un po’ come la «buzzatiana» fortezza Bastiani. Per la Casa di plastica di Sesto San Giovanni ormai la sorte è segnata: sarà rasa al suolo dopo quarant’anni durante i quali nessuno, a parte occasionali occupanti, ci ha mai messo piede. Come nessun tartaro attraversò mai il deserto per combattere il tenente Giovanni Drogo. Tramonta così il sogno di Mario Scheichenbauer, geniale architetto italiano nonostante il nome, che si era illuso di realizzare case popolari belle e a basso costo.
Eravamo infatti alla fine degli anni sessanta, l’onda lunga dell’immigrazione, soprattutto dal Mezzogiorno, era ancora di là da esaurirsi e bisognava dare un tetto a migliaia di persone. Per questo l’edilizia sposò la cosidetta «industrializzazione pensate». Vale a dire moduli prefabbricati da assembleare in poco tempo e ancor minor spesa. Questa emergenza andò a saldarsi però con il clima particolare di quegli anni. Il filosofo Herbert Marcuse lanciò lo slogan «immaginazione al potere», le università presero a ribollire e le facoltà di architettura divennero fucine di idee. In particolare si cercò di fornire soluzioni anche piacevoli esteticamente per non ingabbiare i proletari in orribili scatoloni di calcestruzzo.
«Scheichenbauer - racconta ora l’architetto Enrico Galbiati, tecnico Aler - era appassionato di mare e conosceva bene i materiali usati per le barche. Immaginò quindi un complesso dove al tradizionale cemento armato, usato per i pilastri e i solai, venissero affiancati innovative strutture sintetiche, colorate e leggere». Dal progetto alla fase esecutiva e nel 1972 venne inaugurata in via Catania 126 a Sesto un condominio di quattro piani subito ribattezzato la Casa di plastica. Tutte le pareti perimetrali erano pannelli in resina, già predefiniti con i serramenti, quelle interne in gesso con tavelli di cotto. Bellissimo, quasi un Lego.
Se da un lato divenne uno dei progetti più conosciuti all’estero, del resto era l’unico al bando, dall’altro evidenziò subito una serie di problemi. Nella relazione tecnica dell’Aler si legge infatti un lungo elenco di difetti: «Fessurazioni, scarsa tenuta agli agenti atmosferici, carenza di isolamento, modesta durabilità dei componenti».
«Le case sono sottoposte a movimenti e questo aveva comportato una sconnessione dei vari moduli e degli infissi. Ci pioveva dentro e per ripararli, visti i materiali, avremmo dovuto chiamare tecnici navali invece che muratori - spiega ancora Galbiati - I pannelli poi non isolavano, l’edificio risultava sempre umido e quindi freddissimo d’inverno e torrido d’estate. Portarlo a livelli standard di confort avrebbe comportato una spesa enorme. Stessi problemi per i pannelli interni: non chiudevano bene e non isolavano acusticamente».
L’architetto dell’Aler assolve comunque l’illustre collega: «Non è detto che Scheichenbauer avesse sbagliato tutto, aveva solo realizzato un prototipo che, se fosse stato sviluppato, avrebbe forse dimostrato la validità delle sue teorie. La tecnologia avrebbe potuto sviluppare materiali migliori e i difetti individuati e risolti per tempo. Purtroppo la “Casa di plastica” rimase un sogno isolato: bello e immaginifico ma purtroppo anche un fiasco clamoroso».
E così mentre entrava nei sacri testi di architettura, usciva da qualsiasi progetto abitativo. Diventando solo oggetto di occupazioni. La prima del ’70 si protrasse per un decina d’anni. Un quarto di secolo di abbandono, poi nel 2004 l’irruzione di un gruppo di sudamericani, sgomberati nei giorni scorsi dalla polizia. L’edificio è ora di nuovo muto e il suo destino è ormai segnato.
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