Roma - «Io, il pagliaccio non lo faccio». Romano Vaccarella se ne va sbattendo la porta dalla Corte costituzionale. Con una grande amarezza dentro, una furia che non si placa anche ora che la settimana di passione è finita.
Soprattutto, gli brucia il fatto che siano state messe in dubbio le motivazioni profonde delle sue dimissioni, cioè che abbia voluto difendere il ruolo imparziale della Corte costituzionale, non a parole ma con i fatti. E per fare questo, ha spiegato anche ieri mattina, non basta un confuso «bla bla» sull’autonomia e l’indipendenza della Consulta, come ha fatto il premier Romano Prodi. Ci vuole ben altro. Cose «concrete». Se si vuole davvero bloccare ogni ingerenza, ripristinare una distanza tra l’Alta Corte e la politica che in questo cinquantennio è stata troppe volte violata, per Vaccarella le istituzioni devono agire autonomamente e con fermezza al più piccolo segnale di ingerenza. Non lasciar correre, minimizzare, finché non sono costrette ad uscire allo scoperto solo per il timore del clamore che può suscitare un gesto tanto raro come il suo. Raro, ha scritto nella sua lettera di dimissioni irrevocabili, fino ad essere «incomprensibili» e «inconcepibili» per chi usa un «gergo e una logica» improntati al tornaconto politico e personale.
Ieri mattina, quando è arrivato per l’ultima volta nel palazzo della Consulta, Vaccarella aveva in mano un foglio che trasudava ribellione per le accuse subite da chi ha dato mille segrete interpretazioni del suo gesto, per non accettare che fosse semplicemente quella più trasparente. La decisione di confermare il suo addio l’aveva presa da giorni, appena ascoltate le bellicose reazioni di Palazzo Chigi e del centrosinistra alle sue annunciate dimissioni.
«Lo faccio per me personalmente - ha spiegato al presidente Bile -, ma soprattutto per la Corte, per quel che resta di questa Corte. Per non provocare un danno maggiore all’istituzione». L’accusa che più gli fa male è quella di essere stato presentato dal premier come un «complottardo», uno che ha ordito una manovra per secondi fini, questi sì di strumentalizzazione politica. L’accusa, insomma, gli è stata rivoltata contro. Presentato come «l’amico di Cesare Previti», l’eletto da Fi, ligio ad ordini di scuderia. Troppo fango. No, Vaccarella non ci sta.
«Come posso restare alla Corte - chiede a Bile - dopo che il presidente del Consiglio mi ha indicato come uno che organizza complotti? Succederebbe che alla prima sentenza che non piace a quelli là si direbbe che sono stato io ad orientarla. E sarebbe un danno per tutti».
Bile era costernato, sinceramente dispiaciuto. Perché personalmente, alla Corte, Vaccarella aveva ottimi rapporti con tutti. E in tanti gli hanno chiesto di ripensarci. Il vicepresidente Flick, molto vicino a Prodi, è stato quello che si è dato più da fare. Ma c’è stato anche chi, come Luigi Mazzella, l’ha chiamato i primi giorni dall’estero, per condividere le sue preoccupazioni e dirsi pronto ad un’azione di protesta di tutta la Corte, compatta. Ma le cose poi sono andate diversamente. L’unanimità si è trovata prima per respingere le dimissioni, poi per accettarle quando erano irrevocabili. Vaccarella è comunque rimasto solo a spiegare, giustificare, una posizione che si sarebbe aspettato condivisa da tutti. «Ho posto una questione di metodo, importante - continua a ripetere -, e mi hanno fatto passare come uno che fa manovre politiche».
Arrivare alle estreme conseguenze, a questo punto, gli è sembrato un imperativo categorico, un obbligo morale. Ma la sua fiducia in questo Paese e nelle sue istituzioni esce a pezzi dalla vicenda. Vaccarella ricorda una frase del generale Charles De Gaulle «L’Italia non è un Paese povero, ma un povero Paese».
E ora, che farà? «Sarò disoccupato per qualche tempo - sorride lui -, poi vedrò. È troppo presto per pensarci, è stato tutto così improvviso».
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