Antonio Lodetti
da Milano
Mentre sale sul palco Peter Hammill, lo Schopenahuer del rock, alla guida dei gloriosi Van Der Graaf Generator (David Jackson al flauto e ai sassofoni, Hugh Banton alle tastiere, Guy Evans alla batteria), sabato sera ha già ai suoi piedi il pubblico del Conservatorio di Milano. Potenza del ricordo, dellintensità del loro repertorio che ha resistito - nel cuore dei fan - allusura del tempo. Lultimo album, The Quiet Zone the Pleasure Dome è del 77; il nuovo doppio cd, Present, è uscito due mesi fa. Ventotto anni con il «generatore» spento (carriera solista di Hammill a parte) per ripartire da dove seran fermati; per far capire quanto fossero avanti a quel tempo con la loro visione del rock progressivo che fonde improvvisazione, atonalità, sinfonismo, jazz. Dalle prime note di Undercover (tratta dallalbum Godbluff del 75) con la voce smerigliata e il ruggito degli strumenti che si rincorrono nello spazio, si capisce che sarà una serata di gloria. Il tour è partito il 6 maggio dalla londinese Royal Festival Hall, ma i Van der Graaf non sono un fenomeno britannico. Daccordo, non hanno venduto come i Genesis (ma sono lontani mille miglia dal loro mondo fiabesco) o come Emerson Lake & Palmer (maestri del trasformismo) ma hanno uno zoccolo duro di fan che si identifica totalmente nella loro visione della vita. Una visione intellettuale, angosciata, vulnerabile alle ferite dellesistenza. Dal pessimismo esistenziale dei testi alla colorita vivacità dei suoni i Van Der Graaf hanno costruito un universo che resiste alla consunzione. Più si va indietro (il maestoso crescendo di Refugees tratto dal secondo disco The Least We can Do Is Wave To Each Other) più il pubblico risponde con il cuore. Del recentissimo Present cè solo la sofisticata invettiva politica Every Bloody Emperor, una bella composizione di Hammill dallinedita tensione romantica.
Manco a dirlo - come accaduto con Mark Knopfler e con la reunion dei Cream - lentusiasmo esplode sui vecchi cavalli di battaglia - su celeberrime suite in cui le tastiere ossessive inseguono i crepitii dei sassofoni (Jackson gigioneggia come ai vecchi tempi suonandone due contemporaneamente) e gli spasmi della voce come in Darkness e Masks, che si chiudono su una incredibile standing ovation. I musicisti danno il meglio di sé (e anche di più), non altrettanto i tecnici del suono. A tratti i bassi prendono il sopravvento e il rimbombo copre i virtuosismi dei fiati di Jackson persino della voce di Hammill, che si dannano lanima per farsi sentire. Ma in sala son tutti presi dalle malìe dei Van Der Graaf, che affondano i colpi con le roboanti Sleepwalker, Lemmings e Man-Erg tratte da Pawn Hearts, forse il punto più alto nella storia del rock progressivo. In queste due lunghe suite cè tutto e il contrario di tutto; Lemmings è uno psicodramma sulle nevrosi moderne in cui John Coltrane incrocia i King Crimson, limprovvisazione collettiva sconfina nel free jazz, il rumorismo avvicina i toni gotici. Man-Erg un bruciante inno in difesa delluomo e dei suoi valori.
Signori in giacca e cravatta, capelloni dalle facce truci e dallabbigliamento retrò ma anche tanti giovani cantano parola per parola i testi (per nulla semplici) dei brani e scandiscono il ritmo in piedi. Spettacolarità senza falsi virtuosismi, essenzialità senza inutili barocchismi, la batteria dalle cadenze ora spasmodiche ora funeree.
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