Fumata bianca

Il Vaticano sfiducia i vescovi sulla messa in latino. Ma cresce il malcontento

Le nuove restrizioni sul rito tridentino volute dal prefetto Arthur Roche danno più potere a Roma, ma scontentano fedeli e sacerdoti

Il Vaticano sfiducia i vescovi sulla messa in latino. Ma cresce il malcontento

La notizia era nell'aria da tempo, ma l'ufficialità è arrivata solo questa settimana. Martedì scorso, infatti, è stata la giornata della pubblicazione di un Rescritto con cui il Papa ha avallato la linea dura del suo prefetto del Dicastero del Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il cardinale Arthur Roche sull'applicazione del discusso Traditionis custodes. Si tratta del motu proprio con cui, nel luglio del 2021, Francesco ha de facto abrogato la liberalizzazione della cosiddetta messa in latino concessa dal suo predecessore nel 2007 con il Summorum pontificum.

Celebrazioni più difficili

Il Traditionis custodes, con Benedetto XVI vivente, era già stato accolto con dolore dai sacerdoti e dai fedeli amanti della forma straordinaria dell'unico rito romano. Quel documento affidavava il controllo su questo tipo di celebrazioni ai "custodi della tradizione" ovvero i vescovi diocesani, definiti gli unici a poter autorizzare le celebrazioni eucaristiche con l'uso del messale promulgato da san Giovanni XXIII nel 1962. Sempre a loro toccava autorizzare i sacerdoti che già celebravano la cosiddetta messa in latino, mentre per quelli ordinati dopo l'introduzione del motu proprio era richiesta consultazione con Roma prima del via libera. E sempre i vescovi dovevano vigilare sui gruppi stabili, accertando l'assenza di contestazioni sulla validità della riforma liturgica e del Concilio Vaticano II e consentendo le celebrazioni in Vetus Ordo fuori dalle chiese parrocchiali.

Nonostante l'evidente colpo per i cosiddetti tradizionalisti causato dal ribaltamento di quanto previsto nel Summorum pontificum con il quale Benedetto XVI si era preoccupato di cercare l'armonia tra questa particolare sensibilità liturgica dei fedeli con la cura pastorale ordinaria della parrocchia, in Vaticano c'è stato chi in questo anno e sette mesi dalla promulgazione di Traditionis custodes ha ritenuto che la sua applicazione non fosse sufficientemente esaustiva.

Più potere a Roma, meno ai vescovi

Il prefetto del Dicastero del Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, il cardinale britannico Arthur Roche, deve essere rimasto scontento di come i vescovi diocesani hanno messo in pratica il motu proprio se già cinque mesi dopo, nel dicembre del 2021, ha sentito l'esigenza di far pubblicare dei Responsa ad dubia con annesse note esplicative nelle quali si ordinava ai vescovi diocesani di negare la celebrazione dei sacramenti diversi dall'eucarestia ai gruppi stabili. Le risposte di Roche, presumibilmente, non sono bastate per far sì che i vescovi diocesani applicassero il Traditionis custodes nel senso inteso dal Dicastero del Culto Divino e così, a seguito di un'udienza concessa al cardinale britannico da Francesco lo scorso lunedì, è arrivata un'ulteriore doccia gelata per i fedeli che amano la cosiddetta messa in latino: un Rescritto fatto pubblicare su L'Osservatore Romano nel quale si sente l'esigenza di ribadire che "la concessione della licenza ai presbiteri ordinati dopo" il Traditionis Custodes e "l’uso di una chiesa parrocchiale o l’erezione di una parrocchia personale per la celebrazione eucaristica usando il Missale Romanum del 1962" sono dispense riservate a Roma e su cui il vescovo diocesano non può decidere da sé, ma deve chiedere al Dicastero guidato da Roche.

Una sottolineatura che, però, sembra in contraddizione con lo spirito proclamato dal motu proprio originario e con quanto affermato da Francesco nella lettera di presentazione dove aveva scritto che con il Traditionis Custodes aveva voluto "affermare come spetti al vescovo, quale moderatore, promotore e custode della vita liturgica nella Chiesa di cui è principio di unità, regolare le celebrazioni liturgiche". Il fatto che l'intervento di Roche arrivi a così breve distanza dalla promulgazione del motu proprio e dei suoi Responsa ad dubia potrebbe essere interpretato come una bocciatura delle modalità con cui i vescovi si sono comportati fino ad oggi, al punto da sentire l'esigenza di ribadire che quasi tutte le decisioni sulle celebrazioni nella forma straordinaria spettano a Roma.

Malcontento

Il Rescritto ha provocato l'inevitabile malcontento di sacerdoti e fedeli legati alla cosiddetta messa in latino, ma non solo. All'interno e all'esterno della Chiesa, infatti, sono in molti ad essersi interrogati sull'opportunità di misure ulteriormente restrittive a nemmeno due anni dall'entrata in vigore del Traditionis custodes. Peraltro, non è mancato chi ha evocato urgenze ben più importanti con cui la Chiesa deve confrontarsi.

Lo stesso Francesco si è mostrato consapevole delle polemiche sollevate dal Rescritto. Mercoledì, in udienza generale, il Papa ha detto che "nella Chiesa tutto va conformato alle esigenze dell’annuncio del Vangelo, non alle opinioni dei conservatori o dei progressisti, ma al fatto che Gesù raggiunga la vita della gente” perchè "il Vangelo non è un’idea, non è un’ideologia: è un annuncio che tocca il cuore e ti fa cambiare il cuore".

Intanto le nuove restrizioni sulla messa in latino sembrano ben lontane dall'aver raggiunto quello scopo di "servizio dell’unità" che si prefiggeva Francesco: lo dimostra, ad esempio, la reazione critica del vescovo di Providence, monsignor Thomas Joseph Tobin che in un tweet ha osservato come "il modo in cui il Vaticano tratta la Messa tradizionale in latino non mi sembra lo 'stile di Dio'".

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