Le vecchie glorie sulle spalle delle rockstar

Il cantante jazz pubblica «Duets. An American Classic» per festeggiare i suoi 80 anni. Il re del rock torna con «Last man Standing». Alluvione di duetti e stelle

Antonio Lodetti

da Milano

Eh, il tempo passa e non fa sconti a nessuno, nemmeno ai monumenti del rock e dintorni. Per loro non c’è solo la decadenza fisica, ma anche la volubilità del mercato, i cambi generazionali del pubblico. Chi è stato un pioniere o un ribelle idolatrato da tutti oggi, pur contando sul blasone, deve accettare qualche compromesso. Parlando chiaro i mostri sacri più o meno ottuagenari, per vendere dischi, devono farsi tirare la carretta dai grandi nomi che vanno per la maggiore. Accadde con John Lee Hooker (anarchico maestro del blues rilanciato da Santana e company) ed ora è una moda dilagante che diventa addirittua esagerazione nei nuovi cd di Tony Bennett e Jerry Lee Lewis. È la festa dell’ospitata; scendono in campo due All Star della musica e non si capisce se lo fanno per una festa celebrativa o per coprire con una patina dorata le (fisiologiche) defaillance dei maestri.
Un vecchio crooner non muore mai e i cantanti che, guidati da Bing Crosby, hanno inventato la ballad moderna, sono ancora il fiore all’occhiello della nobile tradizione melodica americana. Bennett è l’ultimo della serie dei bei tenebrosi di origine italiana come Sinatra, Dean Martin, Vic Damone. Ha venduto più di 50 milioni di dischi col suo canto «cuore e polmoni» ora aristocratico ora swingante e dotato di popolaresca comunicativa. Bennett compie 80 anni e li festeggia con Duets. An American Classic, interpretando come solo lui sa fare - con la generosità controllata della sua voce tenorile - il classico songbook americano. Il canto è ancora pugnace ed espressivo, ma debitamente rinforzato dagli interventi di Stevie Wonder (For Once In My Life), di Elvis Costello (Are You Havin’ Any Fun), dai potenti cori delle Dixie Chicks (Lullaby Of Broadway), dall’armonica di Stevie Wonder (For Once In My Life), dai sofisticati dialoghi con Paul McCartney o Elton John o Bono (The Very Thought Of You, Rags To Riches, I Wanna Be Around) a quelli con signore del bel canto quali Diana Krall, Celine Dion e Barbra Streisand (una accademica Smile). L’unico che pare un po’ fuori posto è James Taylor, mentre la differenza tra il Bennett 1950 e quello di oggi spicca nella rilettura della bella The Boulevard of Broken Dreams in coppia con l’onnipresente Sting. Non manca l’incoronazione dell’erede in Just In time con Bublé. Alla popolare I Left My Heart In San Francisco, eseguita in solitudine, Bennett affida il ruggito del leone come ad ammonire, nonostante tanti nomi illustri sono sempre io al centro della scena. E così tiene più che decorosamente il passo dei suoi soccorritori d’oro.
Diverso il discorso per Jerry Lee Lewis. Un conto è cantare le ballate, un conto strapazzare il pianoforte e vomitare inni rock and roll come se si fosse posseduti dal demonio. Lewis «il killer» ci ha abituato a vincere l’Oscar del rocker più ribelle. Lui - insieme al «cantante pazzo» Al Jolson, ad Hank Williams, Muddy Waters e pochi altri - ha davvero rivoluzionato il modo di stare sul palco cavalcando il pianoforte, suonandolo con i piedi, incendiandolo e sparando insulti sul pubblico. Lewis ora ha 71 anni, ha preso a pugni la vita per decenni e la vita glieli ha restituiti con gli interessi, ma lui sostiene ancora di essere «un vagabondo ubriaco che si sente il migliore». Così torna in sala d’incisione e pubblica Last Man Standing, con il libretto di copertina pieno di nostalgiche foto d’epoca. Qui tutti i superospiti si mettono al servizio del suo pianoforte (che ha qualche buon guizzo ma fa sempre da sottofondo) e gli danno il cambio quando la voce non ce la fa. Tutti per lui in un mix di blues, rockabilly, country, r’n’r ovviamente dalle fragranze anni ’60. Parte con Rock and Roll dei Led Zeppelin piuttosto moscia se non fosse per la furente chitarra di Jimmy Page; sui tempi lenti del blues va meglio con il perfetto sostegno ora di B.B.King (Before the Night Is Over) di Eric Clapton (il classico Trouble In Mind con il testo personalizzato) del mago Buddy Guy (Hadacol Boogie). Poi Springsteen e John Fogerty ammorbidiscono due loro pezzi forti come Pink Cadillac e Travelin’ Band piegandoli alle esigenze del vecchio r’n’r, così come fanno Mick Jagger e Ron Wood in Evening Gown e Keith Richards in That Kind of Fool. Da dimenticare la rilettura con Kid Rock e tanti coretti della rollingstoniana Honky Tonk Woman, così come non lascia il segno You Don’t Have To Go con Neil Young. Il pezzo forte è What’s Made Milwaukee Famous, dolente dialogo per due voci sgangherate e pianoforte con Rod Stewart, a metà strada tra la brutalità del blues e i deliri di Tom Waits.

Willie Nelson, Ringo Starr, Robbie Robertson, i re del country Merle Haggard e George Jones (che canta «non vergognarti della tua età») arricchiscono il cd con buoni spunti, ma per la maggior parte è farina del loro sacco. Una saga con alti e bassi: speriamo serva davvero al rilancio di Jerry Lee.

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