Il tipo, il catcher, è davvero insopportabile. È tutto quello che pensi dopo che hai passato con lui una settimana inutile. Sta lì, parla, girovaga, va a puttane ma poi si pente, gira per New York in cerca di non si sa che cosa, incontra vecchi professori, prende per i fondelli lo psicologo, cerca di liberarsi della sorella che ha già pronta la valigia e ti racconta una vagonata di storie di cui, sinceramente, non sai che fartene. La cosa che più ti manda in bestia è che ha sempre diciassette anni. E tutti continuano a chiamarlo il giovane Holden.
Holden Caulfield. È così che si chiama. Ma non è poi così importante. Questa è la prima verità che ti fa capire appena lo vedi. Chi è? La risposta secca è chi se ne frega. Sentitelo: «Se davvero avete voglia di sentire questa storia, magari vorrete sapere prima di tutto dove sono nato e com’è stata la mia infanzia schifa e che cosa facevano i miei genitori e compagnia bella prima che arrivassi io, e tutte quelle baggianate alla David Copperfield, ma a me non mi va proprio di parlarne». Perfetto. Chiudiamola qui e amici come prima. E invece è andata in modo del tutto diverso. È dal 1951 che va in giro, con la solita aria insolente, da fancazzista, come chi sta su questa terra quasi per fare un favore a voi, ma non ha nessuna voglia di sporcarsi le mani. È annoiato. Non sa che farsene della vita. Tutto quello che lo circonda fa più o meno schifo: il mondo, il lavoro, i soldi, i manichini con le cravatte, gli altri, nessuno escluso. Holden è ricco, aristocraticamente melanconico e non ha alcuna voglia di farsi domande. Dice: «Un sacco di gente, soprattutto quello psicanalista che c’è qui, continuano a chiedermi se quando tornerò a scuola a settembre mi metterò a studiare. È una domanda così stupida, secondo me. Voglio dire, come fate a sapere quello che farete, finché non lo fate? La risposta è che non lo sapete».
Questo è il suo segreto. Holden non vede il futuro. Non lo immagina. Non è un suo problema e deambula in un eterno presente. L’unica cosa certa è la sua irritazione. Holden Caulfield è incazzato e non si è ancora capito perché. La storia del fratello morto a questo punto non regge. Deve esserci dell’altro. O meglio. Non c’è. Holden è incazzato e basta. Senza motivo. E questo fa crescere ancora di più la sua rabbia, fino a farlo precipitare in un vortice nichilista. Odio il mondo. Perché? Non lo so? E quindi? Il fatto che non lo so, me lo fa odiare ancora di più. E via così. Esponenziale. «È buffo. Basta che diciate qualcosa che nessuno capisce e fate fare agli altri tutto quello che volete».
Quando lo guardi, ci parli, smozzichi le sue frasi, immagini che non avrà molta fortuna. Holden invece ha cominciato a moltiplicarsi. Una partenogenesi senza senso. Holden, Holden, Holden, Holden, milioni di Holden ogni generazione. Uno dopo l’altro. Sguinzagliati per tutto il Novecento e anche oltre: Fronte del porto, gioventù bruciata, Berkley, il ’68, nella massa ignava e collaborazionista degli anni ’70, punk, punk a bestia, nell’indifferenza degli anni ’80, camuffandosi nel grunge e nella generazione X, fino agli Anni Zero, nel nulla indefinibile e incerto del precariato come ultimo orizzonte di vita. Il diciassettenne sta sempre lì, a ciondolare, a non lasciarsi scalfire da nulla, con l’unica soddisfazione irrealizzabile di vedere il passato e il futuro marcire. Stanco, soprattutto stanco. «Eccezionale. Se c’è una parola che odio è eccezionale. È talmente fasulla». Uff.
La verità è che non ci si può fidare di Holden. Tutto quello che lui dice, fa, sostiene è una maschera per sopravvivere senza pagare pegno. È un vigliacco. Ma lui è quello che ha capito tutto, la sa più lunga di qualsiasi altro. È un maestro di bluff. Holden Caulfield da più di mezzo secolo mente a se stesso: «Io sono il più fenomenale bugiardo che abbiate mai incontrato. È spaventoso. Perfino se vado in edicola a comprare il giornale come niente gli dico che sto andando all’opera».
In questo modo ha illuso uno dopo l’altro ogni suo interlocutore, chi lo ha letto e chi ne ha solo sentito parlare. Tutto in Holden puzza d’imbroglio, a cominciare da quel «giovane». Il giovane Holden è maledettamente vecchio. Si porta dietro tutte le disillusioni dei tanti Holden che lo hanno preceduto. Arriva quando i sogni sono già stati bruciati e si nutre, rinutre, rinutre ancora di quello che resta ed è il presente piatto, senza prospettive, senza neppure l’illusione di un 3D, come un avatar che ha perso il rapporto con l’umano. Holden ogni generazione ricattura se stesso, ma ti ripete sempre le medesime parole, i sentimenti afflosciati, solo che ogni volta sono un po’ più neri, un po’ più disperati. E in questo è davvero eccezionale.
Holden è il vecchio rivoluzionario che non fa mai la rivoluzione. Ti dice che tanto è inutile, che ogni rivoluzione è uguale a se stessa.
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