Veltroni e Pisanu fanno la corte al delfino finiano Granata

RomaMeno male che Gianfranco non c’è. Questione di «delicatezza», dicono. «Quasi considerasse l’iniziativa come un bimbo da preservare, e con la tua sola presenza hai paura di nuocergli». Il «bimbo» sarebbe un libro scritto dal suo fedelissimo Fabio Granata, con prefazione dello stesso Fini, post-fazione di Beppe Pisanu, titolo fortemente evocativo: «L’Italia a chi la ama».
Ma, come scrive il presidente della Camera: «Non è solo il bel titolo di un bel libro...». No, a ben vedere il «bimbo» dovrebbe essere piuttosto l’argomento del libro: un ribaltamento della politica sull’immigrazione capace di rinverdire i fasti del civis romanus sum. Eppure chi è al «battesimo» nella sala del Mappamondo alla Camera - tranne il gruppo di generation two (extracomunitari nati in Italia) convocati ad arte - ha la testa da tutt’altra parte. Deputati, giornalisti e qualche intellettuale vorrebbero piuttosto far materializzare qui un altro «bambiniello», creatura ircocerva con la testa di Fini, braccia e gambe dei deputati Granata e Sarubbi (alter ego pidino di Granata), il corpo di Pisanu. Classico esperimento di laboratorio che vede, come nei film horror, l’ombra di Walter Veltroni profilarsi sul palco degli oratori. Segno di interesse, solidarietà, persino condivisione per le idee espresse da Fini e le sue battaglie solitarie.
Soltanto quelle sul nuovo modello di cittadinanza? Chissà. Ha voglia, Veltroni, a mettere le mani avanti, a pregare di «non leggere politicamente e machiavellicamente questo trasversalismo su una proposta di legge». Ha voglia, Pisanu, di schermirsi: «Non ho firmato documenti e non ho partecipato a riunioni riservate di amici di An semplicemente perché non ne faccio parte». An? Uso del presente a parte, come si può restare immuni dal sospetto? E come si fa a non pensare al Pdl, quando Pisanu invita a non «arroccarci ringhiosamente nella cieca difesa dell’identità minacciata»? O quando Veltroni predica che «non bisogna aver paura di parole che possono sembrare blasfeme»? Certo, si parla di accettare cristianamente la sfida costituita dai quattro milioni di nuovi cittadini, dei loro figli - otto l’ora - che già crescono «italiani». Ma il pensiero vola costantemente all’«extracomunitario» del Pdl, alle posizioni finiane «senza cittadinanza», alla personale sfida per cambiare i connotati del Popolo della libertà, immettere nell’identità finora conosciuta altri - e non ancora del tutto definiti - corredi cromosomici.
Insomma, «italiani si diventa» sembra uno slogan che calza a pennello su «finiani si diventa». Così come i «cittadini di qualità» (da sostituire a quelli «burocratici») si attagliano all’orgoglio della sparuta pattuglia di fedelissimi nei confronti del grosso dei parlamentari; e il sentimento della «dignità avvertito dai migranti e non dagli italiani» riecheggia le motivazioni del capo nel suo «strappo» alla «cristallizzata identità» della cittadinanza berlusconiana. Suggestioni forse dettate dalla «delicata» assenza di Fini, che alla vigilia della direzione Pdl non se l’è sentita di venire ad abbracciare davanti alle telecamere Veltroni e Pisanu.

Però in tanti, nelle retrovie, non aspettavano altro, sapendo che il movimentismo finiano «porrebbe grossi problemi non solo al Pdl, ma anche al centro e al Pd». O, per dirla con l’interessatissimo Bruno Tabacci, si sentono semplicemente «prigionieri in casa». Proprio come Gianfranco, «extra-comunitario» del Pdl. E migrante.

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