Veltroni, Fassino e Cofferati: tre leader finiti nella polvere

Perde Franceschini, certo. Ma, in fondo, questa non è una notizia: Dario, del concetto di sconfitta, è quasi un sinonimo vivente già di suo. Del perdente (in politica, per carità) ha ogni caratteristica, dalla subalternità ai temi altrui, all’antiberlusconismo come variabile indipendente di ogni discorso. La simpatia che gli hanno sempre dimostrato le truppe di Repubblica ha fatto il resto.
Ma, nella sua rovinosa caduta, Dario trascina con se altri sconfitti, a partire da Walter Veltroni che l’aveva appoggiato al punto da rettificare l’interpretazione dell’inviato della Stampa che - dopo un’intervista pubblica alla festa nazionale del Pd di Genova - aveva parlato di un suo possibile disimpegno nella battaglia delle primarie. Macché disimpegno: il giorno dopo, Walter si affrettò a precisare che il suo cuore batteva per Dario e per nessun altro che Dario. E addirittura, dal palco di Genova aveva messo un carico ulteriore: «Se hanno in mente di fare un partito diverso dal nostro, non lo chiamino nemmeno Pd». Insomma: dopo l’(onorevole) sconfitta elettorale del 2008, dopo la disfatta di Roma, dopo la fuga dalla segreteria, per Walter dovrebbe essere la botta della vita, il biglietto per l’Africa, forse senza ritorno.
Poi, ha perso, perso malissimo, Piero Fassino. Stiamo parlando dell’ultimo segretario dei Ds - uno, fra l’altro, che non l’aveva fatto nemmeno male, il segretario - che all’improvviso ha mollato il resto della compagnia: il king maker della sua segreteria, Massimo D’Alema, e l’uomo a cui aveva soffiato la candidatura in extremis l’altra volta, Pierluigi Bersani. E, come sempre gli accade, li aveva mollati mettendoci tutto se stesso, in carne ed ossa. Ossa, soprattutto. La guerra di Piero contro Max & co. andava dalla denuncia del mancato invito alla Festa dell’Unità di Imola, con tanto di polemica a rinfacciarsi con la Federazione imolese le presenze degli anni precedenti, a un volantino allegato ai pieghevoli di Franceschini nelle città rosse, in cui spiegava perché lui appoggiava Dario e non Pierluigi. Insomma, a tratti, sembrava che il candidato fosse Fassino e non Franceschini. E addirittura, in Piemonte, nel suo Piemonte, ha schierato come candidato segretario regionale il suo uomo di punta ed ex ministro del Lavoro Cesare Damiamo. Risultato: trombato Damiano, trombato Fassino. Fine corsa anche per loro.
Ma, se possibile, in queste storie di ex grandi ed ex campioni del mondo (del mondo prodiano, vabbé) che ora sembrano pietire un ingaggio sui campi della serie B o C politica - una specie di Bobo Vieri che si propone all’Atalanta a gettone, al Cesena, a squadre inglesi di secondo piano - c’è qualcuno messo ancora peggio di Damiano e Fassino. Ed è Sergio Cofferati, candidato alla segreteria ligure per i franceschiniani. L’ex sindaco di Bologna, ex uomo dei tre milioni di persone in piazza, ex potenziale padrone della sinistra e forse anche dell’Italia intera, aveva scelto di candidarsi a numero uno della Liguria, contando sul «voto disgiunto» che avrebbe dovuto convincere frotte di liguri ad andare a votare sì Bersani, ma insieme a lui, proprio Coffy. Fra l’altro, il meccanismo delle due schede aiutava. Così come aiutava il fatto che i bersaniani candidassero un ottimo consigliere regionale come Lorenzo Basso, ma con due handicap: essere semisconosciuto ed avere 32 anni che, in una regione molto anziana, non è una credenziale delle migliori. Ma - nonostante avesse messo le mani avanti, spiegando di avere contro tutto l’establishment, e nonostante i suoi abbiano tentato di «buttarla in caciara» denunciando tutto, dai facsimile fuori dai circoli alla scarsità di manifesti per strada - per Cofferati è stata ugualmente una disfatta. Quasi uno spot di un grande futuro dietro le spalle: avrebbe dovuto guidare l’Italia o quantomeno la sinistra italiana e non riesce a guidare nemmeno una parte della sinistra ligure. Potrà sempre dedicarsi a Strasburgo, dove aveva giurato che non sarebbe mai andato per restare a fare il papà a Genova.
Dario, Walter, Piero (e Cesare) e Sergio. Tutti sconfitti. Sconfitti non solo dalle urne.

Sconfitti soprattutto da una frase di Pierluigi Bersani: «Dobbiamo tornare in mezzo al popolo. Anche a quello che guarda Retequattro. Non esiste una sinistra che schifa il popolo, basta con la puzza sotto il naso». È la chiave delle primarie. È la malattia degli sconfitti di ogni sconfitta.

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