da Roma
Inizia con toni quasi entusiastici, e decanta le virtù del suo governo (ombra). Walter Veltroni ci si è messo d’impegno, ha fatto i conti col calcolatore: «Nel governo Berlusconi le donne sono 4 su 21 ovvero il 19%. Nel nostro 9 su 21, cioè il 43%! Anche in questa struttura abbiamo voluto rispettare gli obiettivi di parità di genere!». Subito dopo l’anagrafe: «Nel nostro governo c’è il numero più alto di giovani mai registrato in un governo nella storia repubblicana! C’è anche la ministra più giovane, perché Giorgia Meloni - a cui comunque facciamo gli auguri - ha già 31 anni. Mentre la nostra Pina Picierno ha 29 anni!».
Fermi tutti, va raccontata la scena. Veltroni, lo conoscete, è un genio del marketing politico. Sta in piedi davanti al podietto americano, alle spalle ha il simbolone del Pd, al suo fianco la maschera impassibile di Dario Franceschini. Fosse solo le forme del rito, potrebbe essere un premier a Palazzo Chigi. Ma nel Tempio di Adriano, ieri, con un brusio di fondo insistente, gli stuoli degli staff che affollano la sala immalinconìti, le grandi firme che dopo la sconfitta disertano, qualcosa non torna. Manca solennità: c’è come una nota di diapason stonata che vibra. Come se la sconfitta ronzasse in quel brusio di fondo. Lo avverti nella nota che segue la conferenza stampa, con cui i giovani della Sinistra Giovanile abbandonano il coordinamento nazionale polemici. O nel comunicato del trombato che la prende sul serio - il teodem Bobba - che invoca un ministero della famiglia (poverino, forse ci si immagina lui). Come se un governo in cui sono ministri Matteo Colaninno, o brillanti sconosciuti di sicuro avvenire come Andrea Martella, Alfonso Andria e Lanfranco Tenaglia fosse un governo. Chiedi al leader: «Davvero questa sarebbe stata la squadra se l’Ulivo vinceva?». E lui: «Sì, il grosso delle forze è il meglio della nostra capacità di governo». Caspita. Certo, ci sono Bersani, Fassino, Letta. Ma se guardi la lista salta all’occhio l’assenza di D’Alema. Pensi a una delle sue battute: «Capotavola è dove mi siedo io». Forse qui manca il capotavola.
Solo tre volte che cita la parola governo, Veltroni capisce che almeno una chiosa correttiva è necessaria: «Certo, dico ministri, anche se non sono ministri istituzionalmente deterrminati». Ovviamente sa che un ministro «non istituzionalmente determinato» non è un vero ministro. Così come sa che nessuno crede alla balla che il Pd non abbia perso. Eppure, ieri, con il suo doppio colpo - governo-ombra e nuovo «coordinamento politico» - il leader del Pd prosegue la sua strategia del dopo voto: negare la sconfitta («abbiamo recuperato 12 punti, non abbiamo perso») e le divergenze che emergono nel partito; flettersi senza spezzarsi, mettendosi intorno un nuovo «caminetto» di alleati e oppositori interni tra cui ci sono tutti meno gli oppositori più aspri, «i parisiani». Non c’è Parisi, insidiato persino da Francesco Rutelli nella nomina al comitato di garanzia sui servizi; e nemmeno uno dei suoi, nemmeno Franco Monaco. Neanche nel coordinamento, tra Bersani, Bettini e Fioroni, i due capigruppo, Fassino c’è D’Alema: ancora una volta è un convitato di pietra, come accade a uno dei due dioscuri dell’ex Quercia, ogni volta che l’altro prende il potere. Il dissenso c’è e non c’è, è ancora una volta un ossimoro, come sempre per i post-comunisti. «Ragazzi - scherza Ermete Realacci - vi rendete conto che Dalemiani-Veltroniani è roba di vent’anni fa? Io faccio i conti con la storia di Legambiente, parliamo dei tempi di Chicco Testa!». Già. Saranno tempi lontani, ma non è un mistero la divergenza strategica tra i due: che D’Alema - in forme nuove - voglia ricostituire l’alleanza. E Veltroni continua col dogma dell’«autosufficienza» del Pd (lui la chiama «vocazione maggioritaria»). A domanda risponde con una meravigliosa perifrasi politichese: «Noi non siamo su posizioni di autosufficienza o che negano le alleanze. Ma qualsiasi alleanza deve avere un perno riformista che possa proporre un accordo programmatico». Cioè il suo Pd. Dice Alessandro Taballione, veltronologo di Sky: «Mi pare che Veltroni sia in preda alla sindrome del poker. Più perdi, più devi rilanciare».
Intanto Di Pietro sbatte la porta, Sinistra Arcobaleno grida al «massacro» (perché Franceschini chiede lo sbarramento alle Europee per farli fuori), i giovani di Sg lamentano: «Ancora una volta scelte di retroguardia volte solo a conservare gli equilibri dei gruppi dirigenti». Nel suo blog, Mario Adinolfi, unico oppositore (in chiaro) usa il bisturi: «Il governo ombra è una strepitosa idea del Pci. Lo guida uno che viene del Pci, ministro-ombra degli Esteri che 30 anni fa era già un brillante dirigente del Pci. All'Economia va uno che viene dal Pci più figo e vincente, ministro-ombra degli Interni è uno tosto che viene dal Pci. La strategia pare sia il recupero dei voti al centro. E il rinnovamento?». Adinolfi si fa caustico: «Ah, sì, scusate. Loro mettono una 35enne alla Pubblica istruzione, vuoi mettere il fascino dell'usato sicuro di donna Maria Pia Garavaglia? L'over sixty tranquillizza.
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