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"Veltroni è incapace, mi candido a guidare il Pd"

Il critico d’arte sindaco di Salemi smaschera i difetti del leader democratico e chiede agli iscritti di "provarlo" come nuovo capo. I vizi di Tonino che oggi imita Craxi e fa eleggere il figlio oltre ad amici e parenti

"Veltroni è incapace, mi candido a guidare il Pd"

Premesso che un autorevole esponente di An come il sindaco di Roma Gianni Alemanno ha correttamente preso le difese di Italo Bocchino per il quale la Procura di Napoli ha chiesto gli arresti (e io plaudo a questa solidarietà prima di partito che di ideali) a quanto leggo, gli integerrimi esponenti del coordinamento provinciale di An di Pescara che hanno invitato il segretario del Pd, Walter Veltroni, il commissario regionale del Pd Massimo Brutti e Luciano Violante, a chiedere scusa ai magistrati di Pescara, i quali si sono scagliati dopo la revoca degli arresti domiciliari all’ex sindaco di Pescara, dovrebbero chiedere a Bocchino di rinunciare all’immunità parlamentare, consegnandosi ai giudici e facendosi arrestare.
Così confermerebbero quell’atto di fede nell’infallibilità dei magistrati che li fa così simili a Di Pietro. Il quale, a sua volta, dovrebbe sollecitare l’arresto di suo figlio, giacché le intercettazioni di telefonate con esplicite richieste di favori all’uomo di suo padre indicano una propensione a delinquere e delimitano un quadro probatorio di gran lunga più grave di quello che (non) esce dai favori personali, e non politici, dell’amministratore di Air One Alfonso Toto al sindaco di Pescara.
Per molte ragioni Di Pietro si deve vergognare: la prima è nel peccato originale di aver candidato amanti e figli al Parlamento e ad amministrazioni locali, garantendo loro stipendi e rendite di posizione, non per meriti riconosciuti, professionali o politici, ma solo perché amici o parenti: si tratta di un modello familistico più audace di quello di certe famiglie democristiane o socialiste. Di Pietro ha ripercorso letteralmente la strada di Craxi, che volle suo figlio in consiglio comunale a Milano e suo cognato sindaco della stessa città.
Nei fatti Di Pietro ha riproposto una parodia di Craxi. Il grande moralizzatore, poi, ha fatto peggio: quando ha saputo che il figlio era intercettato, gli ha ordinato di non rispondere più al direttore generale Mautone, sapendo che le richieste del figlio avrebbero rischiato di essere penalmente rilevanti. Se il figlio non avesse avuto niente da nascondere, avrebbe potuto essere tranquillamente intercettato, senza la consegna del silenzio.
La perfetta coincidenza di spirito giustizialista e di cieco fideismo nei giudici segnala l’inquietante affinità tra un esponente della finta sinistra come Di Pietro e gli integralisti di An.
Questo Di Pietro, padre padrone, è l’uomo, dietro il quale Walter Veltroni si è posto, svendendo il suo partito e, in particolare, quel D’Alfonso, che avrebbe forse consentito alla sinistra di vincere le Regionali in Abruzzo, perse dal candidato di Di Pietro che ha ottenuto una percentuale molto inferiore a quella della coalizione che lo sosteneva. Non può essere un leader della sinistra chi non crede nell’onestà degli uomini che hanno condiviso valori e ideali ottenendo consenso. E Veltroni ha abbandonato, spudoratamente, e vigliaccamente, prima Del Turco, poi D’Alfonso.
Soltanto dopo aver avvertito la fragilità del quadro accusatorio, e molto dopo di me, Veltroni si è ribellato ai magistrati e ha difeso il suo compagno di partito. Non lo ha fatto prima, perché doveva mostrarsi più rigoroso di Di Pietro, il cui figlio non risponde al telefono perché ha evidentemente qualcosa da nascondere e vuole sottrarsi a quelle intercettazioni che il padre giudica indispensabili. Bel modello. Io non so se sono intercettato, ma parlo liberamente perché non ho niente da nascondere, pur conoscendo il rischio di fraintendimenti che hanno denunciato Antonio Polito, Barbara Palombelli e Italo Bocchino. Veltroni, ipnotizzato da Di Pietro, idolo degli esponenti di An di Pescara, non ha pensato che corruzione è anche fare eleggere un figlio con i propri voti. Bossi, pur così protettivo verso il figlio, non lo ha fatto. Per rispetto della politica, e per pudore. Ma Di Pietro si ispira a Craxi e a Gava, suoi modelli. E per questo esempio, Veltroni ha dimenticato Berlinguer. Oggi egli vuole un ricambio. Ha preso le distanze da Bassolino, non lo avrebbe voluto in campagna elettorale; non ha speso una parola per Loiero che denuncia le accuse infamanti di una Procura esaltata; ha lasciato cadere sotto sospetti indimostrati il vicesindaco di Firenze Graziano Cioni, persona certamente onesta. Tace persino su Roma, come se non fosse stato sindaco, non difendendo neanche la propria amministrazione, prono davanti ai giudici, in ginocchio davanti a Di Pietro. E adesso? Si accorge che D’Alfonso era probabilmente quello descritto dal figlio del giudice Alessandrini, assessore decaduto, con grande amarezza, della giunta di Pescara.
Come può fare il segretario di partito chi dubita della sua classe dirigente e non la sostiene nelle difficoltà davanti ad accuse insensate e infondate? Persino Di Pietro ha difeso suo figlio, sapendolo certamente colpevole. E avendo eliminato il rischio della collusione criminale trasferendo il suo dirigente Mautone ad altro ufficio, ma sempre alle sue dipendenze. Questa è l’educazione che ha dato al figlio e l’esempio che Veltroni ha deciso di seguire. Tanto, per l’uno e per l’altro, studiare non è importante. Il padre ministro e il figlio consigliere provinciale, per avere subito la Mercedes (con l’autista). Che Mautone oggi sia arrestato, dal punto di vista di Di Pietro, ne dimostra la propensione criminale. E Veltroni non può guidare un partito dei cui dirigenti non si fida, dei suoi compagni, di quelli stessi che lo hanno voluto segretario. Dicono che cerchi di eliminare i fedelissimi di D’Alema. In realtà, sembra guardarsi le spalle per evitare di essere tradito dai suoi stessi amici che egli, come nel caso del sindaco di Pescara, uno dei migliori esponenti del Pd, è subito pronto a riconoscere corrotto. L’inefficacia della sua azione è testimoniata dal gesto spettacolare e patetico del sindaco di Firenze che professa davanti a tutti quella onestà che il suo partito non gli vuole riconoscere. Il Veltroni che tardivamente difende il sindaco di Pescara (che io solo ho pubblicamente difeso, ripeto, su questo giornale) assomiglia al Giuseppe D’Avanzo di Repubblica che, dopo avere amato carnalmente i magistrati in quanto tali, è costretto a riconoscere l’esistenza di «pubblici ministeri avventurosi» scrivendo: «A conclusione di questa storia pescarese, sarebbe ipocrita però non ritornare nell’aula di giustizia e spendere qualche parola per il pubblico ministero e per le sue accuse grossolane: non si può chiedere, come un dovere, ai politici un passo indietro se sfiorati dal sospetto e accettare come il vento e la pioggia che ci sia un pubblico ministero che lavori a mano libera alle sue accuse senza alcuna saggezza, senza alcuna auto-limitazione. Di questa spensieratezza, irrispettosa delle regole e addirittura del buonsenso, ne abbiamo avuto le prove nell’insensato conflitto tra le Procure di Salerno e Catanzaro e ora a Pescara. Pubblici ministeri, così avventurosi da non comprendere che l’autonomia dell’ordine giudiziario è in pericolo se non interpretata con rigore e responsabilità, sono i peggiori nemici della magistratura».
Sembrano le mie parole di quindici anni fa, per cui ho avuto querele e condanne. Il modello del «pubblico ministero che lavori a mano libera alle sue accuse, senza alcuna auto-limitazione, senza alcuna perizia», è il Di Pietro di quegli anni, quello che spensieratamente otteneva da gip compiacenti l’arresto dell’ex ministro della giustizia Clelio Darida, e del compianto presidente dell’Iri Franco Nobili, tenuti in carcere per alcuni mesi, e, dopo lunghi processi, prosciolti da ogni accusa. A entrambi lo Stato ha dovuto risarcimenti, senza che chi aveva compiuto l’errore pagasse una lira. Ora, troppo tardi, Veltroni e Brutti chiedono ai magistrati il «massimo scrupolo e la massima professionalità», ma non sono credibili e hanno perso la fiducia dei tanti aggrediti dai pubblici ministeri avventurosi che, colpendo a sinistra, vogliono apparire super partes. Il segretario di un partito non può essere succube di Di Pietro e dei suoi imitatori. Per questo mi candido, per diritto di prelazione, nella difesa di innocenti diffamati, costretti a dimettersi, e a perdere amministrazioni faticosamente conquistate, a segretario del Partito Democratico. Tanto più che, a questi lumi di luna, e avendo visto come è finito Craxi, non è escluso che qualche magistrato «senza scrupoli» e di non grande «professionalità» chieda l’arresto di Veltroni, per responsabilità oggettiva e perché non poteva non sapere. Per carità, io lo difenderei subito, ma lui dovrebbe consegnarsi, fare un passo indietro, e dimettersi. Meglio che lo faccia prima, seguendo l’esempio del sindaco di Pescara che non ha difeso. Non è uno scenario impossibile: l’ombra minacciosa di Romeo su Roma potrebbe aver indotto Veltroni a schierarsi programmaticamente con i magistrati; l’errore di Pescara a mettere le mani avanti per evitare una metastasi giudiziaria romana.

Staremo a vedere.

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