Milano Sarà un processo, ma lui vorrebbe trasformarlo in un congresso. Un’assise del Pd. Giovanni Consorte assicura di non essere roso dal rancore, ma certo gli deve pesare, eccome, il cordone sanitario steso intorno a lui dai big di un partito che ieri lo riveriva come il Cuccia rosso. Correva il 2005, e i Ds dovevano sciogliersi assieme alla Margherita nel futuribile e sempre nebuloso Pd. Intanto, D’Alema gli gridava al telefono: «Dai, facci sognare» e Fassino, l’ultimo segretario dei Ds, gli chiedeva con la diligenza di uno scolaro piemontese come comportarsi davanti a Luigi Abete. Andava di gran carriera, il Cuccia rosso, e senza troppi pregiudizi e complessi di inferiorità, voleva completare la metamorfosi dell’Unipol, ingoiando l’appetitosa Bnl.
Cinque anni dopo, infranti quei sogni, le ragioni della politica, dell’economia e del cuore sono mescolate e spalmate sull’arida pagina della cronaca giudiziaria. E a Consorte non resta che attaccarsi al processo che comincia domani a Milano e in cui è imputato di aggiotaggio per regolare i conti con chi c’era e gli ha voltato le spalle. Per capirlo, basta scorrere la lista interminabile dei testi che dovrebbero spiegare perché Consorte non era una pallina impazzita nel flipper dei grandi intrecci, ma la punta di diamante di quella finanza rossa che ormai voleva disputarsela alla pari con i grandi del capitalismo. E pensava di poter finalmente coniugare profitto e socialismo, politica e soldi. Consorte, e il suo vice Ivano Sacchetti, evocano come convitati di pietra Massimo D’Alema, Piero Fassino, Ugo Sposetti, il tesoriere, Gavino Angius e Nicola Latorre. Ricordate? Quel Latorre che viveva con l’orecchio incollato alla cornetta e cinguettava: «Compagno Ricucci, all’appello». E poi passava l’apparecchio a D’Alema per farlo sognare con Consorte.
Consorte li vuole tutti in aula, visto che dopo essere precipitato dalla parete delle scalate non ha più trovato nessuno.
Al Corriere della sera l’ha detto chiaro e tondo: «Veltroni, Fassino, D’Alema mi hanno abbandonato. Sacrificato sull’altare del primato della politica. C’era da far nascere il Pd, e a marzo 2006 c’erano le elezioni».
Insomma, la tesi che Consorte ripete con rabbia è terra terra: i big s’inebriarono perché i soldi, la banca, e che banca, il potere muscolare della finanza, sono calamite per tutti. Pure per chi è un comunista, sia pure con il cuscinetto della preposizione ex davanti.
Sappiamo com’è andata a finire: la politica lasciò il passo alla cronaca giudiziaria e Consorte fu relegato all’inferno dei furbetti del quartierino. Ma lui non ci sta. La sua storia è più complessa per essere ridotta a un fumetto, in compagnia dei Ricucci, dei Fiorani, dei Fazio. Semmai, Consorte vorrebbe scavare nel disagio di un partito, il Pd, che non ha mai saputo darsi una strategia chiara sui crinali scivolosi dell’economia e della finanza. Oscillando così fra la tentazione del turbocapitalismo e la deriva moralistica di chi giudica gli altri dall’ambone di una francescana superiorità. Un pasticcio, per dirla tutta, come i balbettii di Fassino che ripeteva: «Abbiamo una banca?» e non si capiva cosa avesse capito e chiedeva e richiedeva dettagli che Consorte si affannava a spiegargli, come un allenatore a bordo campo.
Nell’estate del 2005, l’epoca delle scalate, «il Pd - ci dice Consorte - non era ancora nato ma la sua mancanza di una linea e di un’azione politica precisa ha origine da quella vicenda». Il peccato originale del Pd, battezzato nell’acqua torbida degli affari. Quell’esserci dietro le quinte dei big dei Ds, ma senza volersi sporcare le mani, e dunque più veloci di Bolt a scaricare il Cuccia di via Stalingrado, il quartier generale bolognese dell’Unipol, al primo stormir di Procure.
Il progetto di Consorte era chiaro: con Unipol-Bnl sarebbe nato il terzo gruppo bancario italiano, forte di dieci milioni di clienti. Una rivoluzione, quella vera, mica come le altre, infarcite solo del desolante linguaggio dell’ideologia. Il problema, almeno dal suo punto di vista, è che lui era troppo avanti: la transizione, quella politica, procedeva lenta e farraginosa fra strappi, passetti e passi del gambero, in una mischia confusa. C’era da schiudere l’uovo del Pd, e la componente cattolica, quella dei Rutelli e dei Parisi e di tanti altri temeva l’emarginazione, l’irrilevanza, il diventare solo un alibi per i Ds. E per il loro potere debordante.
Alcuni anni prima, proprio D’Alema aveva benedetto i «capitani coraggiosi», la «razza padana» dei Colaninno e degli Gnutti che si erano lanciati nell’operazione Telecom, e che avevano trovato la sponda rossa di Consorte, convinto di dover sprovincializzare con la giusta ferocia la sonnolenta Unipol. Poi, nel 2005, ecco le intercettazioni, i primi passi della procura di Milano, ed ecco le fibrillazioni della politica L’uovo non si schiude. Parisi attacca: «Torna la questione morale, troppe le commistioni fra politica ed economia». Fassino difende la linea del Piave: «Nessuno può darci lezioni», ma poi le lezioni il gruppo dirigente dei Ds se le fa dare, eccome, con la coda fra le gambe. Spariscono tutti, prendono le distanze, intingendo le parole nel latte dell’etica, non difendono più quelle posizioni che prima trattavano con euforia al telefono.
Le scalate non scalano più nulla, la razza padana scolorisce nella saga dei furbetti, i Ricucci, i Coppola, i Fiorani, e con loro il governatore Fazio, diventato il bersaglio di inchieste multiple, di feroci ironie, di tirate moralistiche. Il duo Consorte-Sacchetti viene abbandonato da tutto e da tutti. Il Cuccia rosso in disarmo diventa l’ex che si è arricchito, il traditore che si è ingrassato con le plusvalenze, sospette già lessicalmente, il cinico finanziere che ha intrecciato la sacralità della falce con la volgarità arraffona dei nuovi borghesi alla Vanzina. Un matrimonio che non si doveva fare e che ricade tutto sulle sue spalle.
Ma lui non ci sta a farsi impiccare con la corda fabbricata dalle mani che prima si spellavano per applaudirlo.
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