Matteo Failla
William Shakespeare non si è mai curato di dare alle stampe le proprie opere, ma per il poemetto giovanile Venere e Adone (e anche per Lucrezia violata) fece uneccezione, e certo non per scelte letterarie, quanto piuttosto per ragioni economiche. Tra il 1592 e il 94 infatti Londra fu colpita dalla peste e molti teatri dovettero chiudere. Per Shakespeare arrivò un brutto periodo e per sopravvivere fu costretto a procurarsi una patente di Poeta: per questo scrisse questo poemetto, in stile «alto» e «alla moda dei tempi». Ma quei due testi racchiusi nel pometto, nelle intenzioni del Bardo, non erano certo destinati al teatro. Eppure non la pensa così Riccardo Magherini, regista di Venere e Adone, in scena al Teatro Arsenale fino al 14 maggio. «Credo possa tranquillamente esistere una trasposizione teatrale - afferma Magherini - se si tiene conto che, al di là della pura esibizione di virtuosismo, questi portano con sé tutta la potenza evocativa, la maturità, la capacità dialettica e tutta la teatralità del grande drammaturgo». Ecco quindi andare in scena un poemetto il cui soggetto è la natura del desiderio sessuale, dove si narra del mitico incontro tra la dea dellamore ed un pastore. Magherini ha tuttavia deciso di spostare il luogo della storia, portando Shakespeare in Sicilia, in seno alla più nobile tradizione dei nostri cantastorie. «Usando solo noi stessi, la nostra voce e la nostra musica - spiega il regista - ho deciso di trarre ispirazione dalla tradizione del cunto siciliano, una tradizione apparentemente distante dallopera di Shakespeare, non tanto nei contenuti quanto nelle sonorità o nelle variazioni drammatiche e nei diversi movimenti (largo, eroico, allegro, tragico) che lo caratterizzano. Così, quasi inaspettatamente, come in un vero cunto.
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